L’eredità scomoda di un critico eretico e inattuale

Non so se Steiner sia stato il critico letterario più influente della seconda metà del XX secolo. So, però, con certezza che sarà uno dei pochi a sopravvivere all’oblio che normalmente involve questa strana specie di individui, temuti spesso in vita e quasi sempre trattati post mortem a mo’ di cani morti. C’è una scena meravigliosa di Cloud Atlas in cui Dermot Hoggins, un criminale autore di Knuckle Sandwich, durante il buffet per la presentazione del libro, scaraventa giù dal grattacielo un critico che lo ha stroncato. Steiner non sarebbe andato a quel party! Volava troppo alto. La sua produzione è vasta (ma non vastissima) con rare puntate nella narrativa (Il processo di San Cristobal, in particolare, e Il correttore).

Malgrado la sua fama planetaria, rimane un autore quanto mai eretico. Basti leggere gli articoli o le parti dei saggi dedicate all’ebraismo. Il suo amore assoluto per quella cultura, che era la sua, non gli hanno impedito di muovere critiche serrate al sionismo e alle politiche dello Stato di Israele, che avrebbe tradito la dimensione cosmopolita della religione abraminica, valendogli (ridicole) accuse di antisemitismo.

Il suo testo teorico più denso resta Vere presenze, uscito nel 1989, tradotto in Italia nel 1992, in una fase di diffusione in ambiente accademico delle teorie decostruzioniste che scalzarono rapidamente, insieme ad altri approcci, l’egemonia strutturalista retaggio degli anni Settanta. Mentre, però, il decostruzionismo, pur debitore ad Heidegger e ai suoi “figli”, adottati in America, sviluppò la variante “nichilistica” del postmoderno, Steiner, in questo erede consapevole dell’ebraismo (pur affascinato dal mondo cristiano), teorizzo un arte portatrice di senso a oltranza. Solidissimi i suoi riferimenti filosofici: il nazista Heidegger, appunto, cui dedicò un’introduzione generale utilissima per chi voglia entrare nel pensiero apparentemente esoterico del “Mago di Meßkirch”, l’ebreo Wittgenstein (con il suo primato della lingua naturale), l’ebreo Lévinas (che contro Heidegger pronunziò parole di fuoco), il cui pensiero si fonda «sulla rivelazione e la responsabilità etica in ogni testo e atto linguistico degno d’attenzione». È possibile, mi dico a mo’ di conforto, avere guide e maestri che non si sono amati tra loro. Insomma, Steiner, contro una letteratura ridotta a cadavere da sezionare nel peggiore dei casi, nel migliore vacuo gioco linguistico (al punto da generare testi nati per essere non tanto letti da persone “normali” quanto analizzati nei dipartimenti di Lettere), rivendicava la “forza” della parola (anche questa una evidente eredità biblica). In Italia Eco e Calvino stati, negli anni Ottanta, il segno tangibile di questa decadenza, artefici di luccicanti divertissement, divenuti modello per intere generazioni di giovani scrittori.

Nella prima parte del libro, il critico scomparso il mese scorso attacca con durezza il trionfo della letteratura secondaria. Quando lo lessi, appena uscito, ne fui folgorato. Pensavo a me, che pure avevo fatto un’eccellente università a Roma: centinaia di saggi e libri facilmente dimenticabili prodotti quasi sempre per nutrire più o meno importanti o mediocri carriere accademiche, e pochissima letteratura primaria. E nella scuola, purtroppo, non è ancora predominante lo studio della storia della letteratura a discapito dell’incontro trasformativo con l’opera? Questa era l’utopia di Steiner:

Nella nostra città immaginaria, gli uomini e le donne praticano le arti della lettura, della musica, della pittura o della scultura nei modi più diretti possibili. Una vasta maggioranza di individui che non sono scrittori, pittori o compositori in proprio diventeranno, nella misura delle loro capacità e della loro libertà, degli interlocutori attivi e coinvolti. Impareranno a memoria, par cœur, percepiranno la pulsione d’amore che anima questa espressione idiomatica, poiché l’amateur, il dilettante, è colui che conosce e ama ciò che esegue. La parafrasi, il commento, la graduatoria accademico-giornalistica non si inframmettono più. L’interpretazione è quanto più possibile vissuta.

Il che ovviamente non significa la scomparsa della critica ma la riconduzione al ruolo ancillare che le pertiene.

La seconda parte di Vere presenze racconta, quasi come in un romanzo, come si sia infranto il patto tra “parola” e “mondo”, legittimando un’arte in continua fuga dal reale, totalmente autoreferenziale.

L’ultima parte di un libro che andrebbe fatto leggere come letteratura primaria nelle nostre scuole, è un titanico tentativo di arginare la catastrofe della modernità, sanando la “frattura fonda” apertasi con Rimbaud e Mallarmé. L’arte rende possibile un miracolo simile alla transustanziazione, per questo il titolo del libro è Vere presenze. Essa è l’unico strumento a nostra disposizione per entrare in contatto con l’assolutamente altro con quell’elemento «totalmente alieno in cui ci imbattiamo nel labirinto dei nostri affetti intimi […]. Sono il poeta, il compositore, il pittore, sono il pensatore religioso e il metafisico, quando danno ai loro riscontri la persuasività della forma, a insegnarci che siamo monadi perseguitate dal desiderio di comunione».

Ereditare Steiner, in un tempo che gli sarà sempre più sembrato in balie di potenze infere, significa non rassegnarsi alla parola autoreferenziale, la parola dominatrice della ret(t)orica che imperversa nell’universo mediatico, cui contrapporre la parola «guadagnata al silenzio» capace, per citare un poeta (ebreo anch’egli) a lui caro, di mostrare «la semina» nel tempo delle «orecchie prostituite».