La rinvincita del lievito di birra

I focolai ci hanno indotto al rifugio nei focolari. È un rimedio per evitare il contagio. Alcuni, però, non reggono il calore famigliare cui il focolare domestico allude. Devono avere una bassa temperatura di autoignizione, alla prima scintilla si affacciano sui balconi a menar note stonate. Stonano i flashmob con l’aberrante quiete della quarantena, finiscono per esaltarla. Poco importa, questione di temperamento, oltre che di temperature.

Lentezza&salute: la catarsi

Gongolano, invece, nei focolari domestici le palle di pasta di pane. Gonfiano il petto orgogliose fino al pavoneggiamento. Se ne ha testimonianza sulle bacheche social di mezza Italia.

Il coronavirus ha un risvolto positivo nella catarsi della retorica slowness&health: mercatini chilometro zero, bio qua e senza olio di palma là, grani antichi, lievito madre e cazzate varie discorrendo. Al primo giorno di quarantena, all’annuncio del primo decreto governativo, pluf, s’è dissolta la patina untuosa di un certo conformismo elitario da cucina.

Dalla bottega bio o dal mercatino rurale agli anditi dei supermercati è stato un batter di ciglio. E’ arrivata, così, la nuovelle vague della pizza Catarì (era il preparato per la pizza nato negli anni ‘50, oggi a base farro che fa tanto slowness&health) fatta in casa con ingredienti da bancone. È arrivata, finalmente, la rivincita del lievito di birra e con essa quella della farina industriale, bianca che manco l’avessero passata con l’amuchina. Finissima, anche triplo zero (magari esistesse), in sfregio ai gastrofighetti della farina tipo 1, indignati da quelli che considerano essere gli strippati della 00. Era solo un paio di settimane fa quando la doppiozero, per l’appunto, si acquistava al pari di una sostanza proibita, quasi a propria insaputa. Dopo averla afferrata furtivamente nello scaffale nel momento in cui si era inosservati, in barba agli agenti della polizia morale della slowness&health incorporated, la si nascondeva nel carrello sotto la busta dei sedani e delle bacche di goji bio, of course.

Siamo tutti Catarì

Ora il lievito di birra e la farina bianca, pur se fossero (e non lo sono) di plastica e di metallo come la luna e i muscoli del capitano di degregoriana memoria, vanno a ruba, come e più dell’Amuchina, come e più della carta igienica (di cui la corsa alla scorta resta un mistero. Per un attimo mi è baluginata l’immagine della pasta per la pizza lasciata a lievitare avvolta nella carta igienica piuttosto che nel classico strofinaccio) . L’epidemia ci ha fatti tutti Catarì.

Il lievito di birra, dunque, è il vero protagonista della quarantena. Si è preso il palcoscenico, il frigorifero, le tavole, i focolari, i forni e le friggitrici. Pizze, pizzette, montanare, pani e panini.

La disinfezione di marketing&marchette

L’epidemia, del resto, ha disinfettato tutto il mondo della fuffagastronomia. I fuffablogger non hanno più parole, i food&wine influencer sono passati al settore delle mascherine e dei rasoi depilatori, i trucidi giornalisti solo gastronomici, quelli col dizionario di 28 parole, tutti sboccataggini, scollature o panze (a seconda del sesso) e selfie con gli starchef, son finiti a lavar stracci di cucina.

Una gastronomia autenticamente casalinga, essenziale e gioiosa, identitaria, italiana, popolare è riemersa dal lerciume del marketing&marchette, dall’ipocrisia che scavava nei sensi di colpa della sovrabbondanza coi buoni propositi espiatori, nella ricchezza con la scusa della povertà dei contadini.

L’ordine ristabilito

Il lievito di birra (saccharomyces cerevisiae) è l’esito di una selezione millenaria di microrganismi golosi di zuccheri che scoreggiano anidride carbonica, quella che fa le bolle nei cornicioni delle pizze, del pane, delle pizze fritte. Un processo complesso e banale che da millenni regala all’uomo alimenti e bevande essenziali come il pane e il vino.

Negli ultimi anni la ferocia talebana delle milizie slowness&health aveva iscritto quei saccaromiceti d’origine egizia nella lista dei miscredenti infedeli da scavicollare. Averne in stiva qualche tronchetto implicava il rischio della denuncia al Tribunale Supremo dei Grani Antichi e delle Farine Cremisi.

Ci ha pensato il virus a ristabilire l’ordine delle cose, a giustiziare il lievito madre, a far strame delle pose da passerella gastroconformista.