Il disastro perfetto

Il 13 marzo è apparsa su Vice un’intervista a Naomi Klein condotta da Marie Solis avente per focus l’emergenza pandemica, definita dalla celeberrima scrittrice canadese, autrice del best-seller No Logo (2000), “il disastro perfetto”.

Una definizione che lascia piuttosto perplessi finché non la si interroga preliminarmente: perfetto per chi e in che modo?

Il gioco di parole contenuto nella titolazione dell’intervista non può depistarci: “Coronavirus is the Perfect Disaster for Disaster Capitalism”. Il “for Disaster Capitalism” (capitalismo da disastro) risponde decisamente al “per chi”. Mentre per capire “in che modo” è necessario immergersi nelle argomentazioni di Naomi Klein. La quale ha pochi dubbi sul fatto che i governi e le élite mondiali della finanza cavalcheranno la diffusione planetaria del male invisibile per attuare programmi politici che altrimenti sarebbero fortemente avversati dall’opinione pubblica. E ha pochi dubbi perché tale opzione rappresenta un comportamento sistemico quando entra in scena ciò che lei classifica come “dottrina dello shock”.

Una catastrofe ambientale, una guerra, una recessione, una pandemia, appunto, secondo tale “dottrina” forniscono opportunità inimmaginabili per il consolidarsi del libero mercato, per un’intensificazione della deregulation e per l’inasprirsi delle disuguaglianze economiche. In periodo di crisi ci si concentra sull’immediato, sulla sopravvivenza quotidiana. L’importante è galleggiare. La precarietà disattiva lo spirito critico, abbassa la soglia d’attenzione sulla lunga distanza. Ci si stringe attorno a chi dirige le operazioni di risalita, a chi detiene il potere, ci si ricompatta, ci si affida quasi alla cieca. La grande industria, se ingolfata, deve ripartire.

La crisi, di qualunque natura essa sia, permette l’abbassamento dei diritti dei lavoratori perché il lavoro langue, permette tagli alle tasse sui salari (“che devastano la sicurezza sociale”) perché gli investitori latitano, permette di non retribuire chi è in congedo per malattia (un quarto degli occupati americani del settore privato) perché nessuna risorsa finanziaria va sprecata. In buona sostanza, permette – suggerisce Naomi Klein – esattamente ciò che sta tentando di fare Trump nel fronteggiare l’emergenza pandemica: 700 miliardi da pompare nel comparto industriale in previsione delle fisiologiche flessioni della produttività e dei consumi dovute all’effetto coronavirus. Da bilanciare con la solita compressione della spesa pubblica. Il tutto, viene da sé, a carico dei contribuenti. Stiglitzianamente: privatizzare gli utili, socializzare le perdite.

Qualsiasi forma di contestazione, organica al decorso di una crisi, viene soffocata in culla, poiché veicolata come ulteriore ostacolo sul lungo cammino della ripresa, come sgrammaticatura infruttuosa nella grammatica dell’emergenza, come embrione di una translatio imperii traumatica e ignota.

Nel prosieguo dell’intervista, Naomi Klein si sofferma sulla gestione dell’emergenza negli Usa sul piano sanitario. Sottolineando come l’amministrazione Trump abbia provato a misconoscere il più possibile la gravità della situazione.

Una crisi epidemica, afferente alla salute pubblica, è stata spostata sul terreno della mera psicologia: il problema non sarebbe costituito dal pericolo in sé ma dalla percezione abnorme del pericolo, considerando la bassa letalità del virus.

Una linea politica quasi obbligatoria per una nazione che non dispone di un’assistenza sanitaria universale (i tamponi costano migliaia di dollari) e che non predispone la retribuzione per chi si congeda per malattia, favorendo, di fatto, esponenzialmente, le occasioni di contagio.

Risultato: gli americani, in larga maggioranza, dovrebbero andare all’estero per conoscere le proprie condizioni di salute e chi non può garantirsi cure private, essendo la sanità pubblica ridotta all’osso, o un piano assicurativo che implichi un ampio spettro di tutele, può solo affidarsi a quel Dio che nei discorsi dei presidenti benedice l’America.