Chi era veramente Gesù?

Ci avviciniamo alla Pasqua, il cuore dell’anno liturgico cristiano, la morte e la resurrezione di Gesù Cristo, nato a Betlemme da una Vergine, seconda persona della Trinità, morto sulla croce come agnello che prende su di sé i peccati del mondo e risorge dopo tre giorni.

Appare, dunque, questo tempo opportuno per interrogarsi su chi fu veramente colui che viene considerato l’iniziatore di questa nuova religione, destinata ad imporsi non nella sua terra d’origine ma nell’impero romano, divenendo il collante culturale di una lunghissima civiltà. Nel Medioevo quella che oggi chiamiamo Europa si chiamava Christianitas.

Gesù appare oggetto storiografico di straordinario interesse, non avendo lasciato nessun testo scritto e risalendo tutte le testimonianze scritte ad anni successivi alla sua morte.

È merito del libro-intervista di Corrado Augias a Mauro Pesce, docente di storia del cristianesimo, aver aperto ad un vasto pubblico un problema dibattuto almeno dal XVIII secolo (Hermann Samuel Reimarus), con metodologie e risultati molto diversi, ma che sicuramente a partire dagli anni Novanta ha raggiunto una serie di certezze difficilmente scalfibili, integrando varie discipline.

Si sono distinti in questa ricerca studiosi italiani tra i quali è doveroso ricordare, oltre allo stesso Pesce e Adriana Destro, Giuseppe Barbaglio e Giorgio Jossa. Oltre i confini patri, vanno ricordati gli studi di Sanders, Meier, Dunn, Stegemann.

Accostarsi al Gesù “storico” può sicuramente turbare. Anche l’agnostico o l’ateo è inconsapevolmente portatore di un lettura “cristiana”. Ma anche per questo l’esercizio può apparire estremamente fecondo per tutti. Parafrasando un celebre motto, potremmo dire: «Christus amicus sed magis amica veritas».

Vediamo le domande fondamentali e proviamo a formulare brevi rispose (dando per assunto che questioni relative alla nascita miracolosa, alla verginità della Madonna e alla resurrezione per lo storico non possono neanche porsi e rientrano in quei meravigliosi miti, carichi di potenti e feconde simbologie di cui l’umanità ha mai come ora bisogno).

Qual era il messaggio gesuano? Predicatore itinerante di un mondo contadino, oscuro figlio di un carpentiere di Nazareth, nei villaggi che attraversava, dopo un assai probabile discepolato con il battezzatore Giovanni, erede dell’apocalittica ebraica, annunziava la buona novella (εὐ “buono” + ἄγγελος “messaggero): Dio stava per realizzare sulla terra (non solo in Palestina) il suo “regno”. L’unica preghiera che insegnava ai discepoli, rimanendo dunque nell’alveo di un ebraismo che rivendicava la purezza delle origini e il rispetto della sostanza più che della forma (come la corrente più influente del tempo, il fariseismo), era un’implorazione al Dio Padre affinché accelerasse i tempi di questa venuta, affidando agli uomini la reciproca remissione dei peccati, secondo una antica tradizione mosaica relativa alla remissione dei debiti (il giubileo).

Ma allora perché il “cristianesimo” è diventato fede in Gesù “Cristo”, «figlio unigenito» come recita il Credo niceno-costantinopolitano elaborato (per motivi prima di tutto politici) nel IV secolo d.C., quando la religione orientale divenne instrumentum regni con Costantino? Secondo alcuni, il vero artefice di questa mutazione è stato un vero e proprio genio teologico, Paolo di Tarso, che non conobbe Gesù ed ebbe uno scontro durissimo con la comunità cristiana gerosolimitana, guidata da Giacomo, fratello di Gesù, e Pietro, sulla questione della circoncisione. Paolo la voleva del “cuore”, mentre per gli apostoli era scontata l’appartenenza all’ebraismo (e dunque la circoncisione della carne). Anche in virtù della diaspora e della fine della comunità gesuana di Gerusalemme, l’impostazione ecumenica paolina trionfò, e con essa la sua teologia in cui Gesù è il Cristo mediatore della salvezza attraverso la sua morte in croce.

Ma Gesù si proclamò “Cristo” (parola greca che traduce l’ebraico Mašīaḥ)? Anche in questo caso è necessario liberarsi dalle “lenti” cristiane per capire. Il “messia” ebraico, in una dottrina che si evolve nei secoli, è comunque sempre una figura umana, un re futuro che porterà la salvezza a Israele e all’umanità. Per l’ebraismo l’idea di un uomo-Dio è assolutamente eretica. Secondo Giorgio Jossa, autore di un recente studio in merito, Gesù avrebbe rivelato la sua identità messianica nella sua unica salita a Gerusalemme, e questo avrebbe causato la sua morte. Destando preoccupazione nell’aristocrazia farisea che gestiva il Tempio, Gesù sarebbe stato tradito da uno dei discepoli (che secondo alcuni storici lo avrebbe voluto a capo di un insurrezione armata antiromana, come gli zeloti), e avendo ribadito la sua identità messianica, sarebbe stato consegnato all’autorità romana che lo avrebbe condannato alla morte in croce per esserci proclamato, come recita la sicuramente storica inscriptio crucis, «rex Iudaeorum». Gesù muore come ribelle politico (per i Romani), accanto ad altri ribelli (non ladroni!), per aver minato gli equilibri dell’ebraismo del suo tempo.

Ci troviamo, insomma, di fronte ad un meraviglioso rompicapo per lo storico e le diverse interpretazioni dei passi, la selezione stessa delle fonti storiche talvolta portano a conclusioni molto diverse tra loro. Probabilmente solo la figura storica di Socrate pone quesiti altrettanto complessi.

Il confronto con il Gesù storico consente a chiunque, credente o no, di trovare (o ritrovare) un uomo unico, che intravide un Dio paterno e misericordioso (la parabola del figliol prodigo), predicò una vita non di riti esteriori ma di altruismo vissuto (la parabola del buon samaritano) e credette ardentemente in un mondo più giusto, portato da Dio nel mondo («Veniat Regnum tuum»). Un messaggio che, vissuto all’altezza del proprio tempo, è quanto mai attuale.

Il disegno, come i precedenti che accompagnavano i contributi di Nicola Sguera, è di Ferdinando Silvestri: laureato in fisica, ha capito da un pezzo che la sua strada è quella delle matite. Quando non disegna, divide la sua vita tra famiglia, karate e lettura.

—————————————

Il professor Emanuele Trosi ha fatto pervenire il commento che qui riportiamo integralmente.

L’amico e collega Nicola Sguera ha recentemente pubblicato su questa rivista un interessante articolo nel quale, a pochi giorni dalla Pasqua, ha voluto riproporre la grande questione della storicità di Gesù.
La domanda intorno a cui ruota tutto il suo ragionamento è perché e quando il Cristianesimo sia diventato “fede in Gesù Cristo”.
Com’è noto, è stato lo stesso Gesù di Nazaret o Joshua Ha-Nozri, come forse preferirebbero chiamarlo i colti lettori di Corrado Augias, a proclamarsi “Cristo”, ma Sguera sgombra subito il campo da possibili fraintendimenti, affermando che «è necessario liberarsi dalle “lenti” cristiane» per capire chi sia stato Gesù nella sua verità storica.
Così, dopo aver ricordato che Gesù era l’oscuro figlio di un carpentiere di Nazaret, un più che probabile discepolo del battezzatore Giovanni e un maestro che si mosse sostanzialmente nell’alveo dell’ebraismo, attribuisce il vero inizio del cristianesimo al genio di Paolo di Tarso e al trionfo della sua teologia.
Senza nulla togliere ai meriti e alle buone intenzioni del professore Sguera, proviamo a muovere alcune obiezioni alle sue tesi.
Innanzitutto occorre precisare che la nascita di Gesù non ha nulla di oscuro. Se non fu per intervento dello Spirito Santo che Maria si ritrovò incinta di Gesù, perché questo ovviamente non può essere assunto come dato storico ma solo come verità di fede, non c’è nessun motivo di dubitare che il vero padre di Gesù sia Giuseppe.
In secondo luogo, non risulta da nessun documento che Gesù sia stato discepolo di Giovanni. Ricevette da lui il battesimo nelle acque del Giordano per adempiere alle Sacre Scritture.
In terzo luogo non ha alcun senso affermare che sia stato Paolo il vero iniziatore del cristianesimo, dal momento che è lo stesso apostolo delle genti a porre Cristo al centro della sua teologia: «Nessuno – scrive infatti nella Prima lettera ai Corinzi – può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo» (1 Cor 3,11).
Ma non è tanto su queste questioni, pur importanti, che voglio soffermarmi, quanto sulla conclusione del discorso di Sguera. Nelle ultime righe del testo infatti, il filosofo afferma che «il confronto con il Gesù storico consente a chiunque, credente o no, di trovare (o ritrovare) un uomo unico, che intravide un Dio paterno e misericordioso…predicò una vita di altruismo vissuto…e credette ardentemente in un mondo più giusto».
Queste parole meriterebbero un commento molto più articolato. Per brevità, ci limitiamo a dire che Gesù non è stato solo un «uomo unico». Non lo possiamo dire non perché siamo cristiani, e lo siamo tutti in Occidente a prescindere dalla fede, ma perché Gesù stesso, in più occasioni, ha detto di sé di non essere solo questo.
Davanti a Pilato che gli chiede “che cos’è la verità”, Gesù resta in silenzio. Ma le parole che aveva pronunciato prima sono di quelle che cambiano la storia: «Il mio Regno non è di quaggiù. Per questo sono venuto al mondo, per rendere testimonianza alla Verità». La domanda di Pilato è legittima, semplice, forse provocatoria. E’ la domanda di un uomo di media cultura, probabilmente un romano scettico, che nel governo di una regione difficile, la Giudea, si trova di fronte uno che, a dispetto degli stracci che indossa e della polvere ai piedi, dice cose strane e, forse, pericolose. Un ribelle e un bestemmiatore. Glielo presentano così i suoi nemici e lui, alla fine, lo condanna alla crocifissione per questi ragioni. Ma quella domanda ha attraversato i secoli. L’uomo ha continuato a porsela, ignorando, però, le parole che l’avevano provocata. Solo ponendosi nell’orizzonte della fede, ha scritto San Giovanni Paolo II, la ragione può compiere speditamente il suo cammino. È il “credo ut intelligam” di Agostino ed Anselmo: l’intelligenza trova quello che la fede cerca!
Gesù non è un rompicapo per gli storici, dunque, come può esserlo stato Socrate, a cui spesso viene accostato per l’ingiusta condanna e l’assenza di scritti. Quello della storicità di Gesù è un falso problema, un gioco intellettuale fine a se stesso e un po’ superbo, dietro cui ci si nasconde per sfuggire agli interrogativi drammatici che Gesù pone. Un confronto con la figura del nazareno deve tenere il “mito” dentro la storia, accogliere l’umanità di Gesù senza escludere la divinità di Cristo. Non ci si può porre davanti a Gesù, come ci si pone davanti a Socrate, a Siddharta Gotama, o a Confucio. Di questi possiamo dire che sono stati “uomini unici”. Non di Gesù.
I Vangeli, come le Lettere degli apostoli, non sono testi storici, è vero. Sono testimonianze di chi ha visto «il Verbo della vita» ed è stato investito della missione di riferirne ad altri, affinché credessero e testimoniassero a loro volta. Tuttavia, nessuna fonte storica antica, eccetto il famoso e controverso Testimonium Flavianum, parla di Gesù di Nazaret. Il documento prende il nome dallo storico giudeo romanizzato Flavio Giuseppe che, nell’opera Antichità giudaiche, descrive il nazareno come «un uomo saggio», capace però di «opere straordinarie». A parte questi testi, non ci sono altri scritti a cui poter fare riferimento per “capire Gesù”.
Eppure si cerca, a tutti i costi, il Gesù storico, ci si sforza di de-mitizzarne la figura, di sottrarlo alla fede, come se da questo dipendesse il nostro giudizio su di lui.
Il discorso di Sguera si inscrive in questo filone.
Ma Gesù non ha intravisto un Dio paterno e misericordioso, come lui sostiene. Lo ha rivelato agli uomini. E’ lui stesso quel Dio. Gesù non si è limitato a predicare «un altruismo vissuto». Lui ha incarnato questo amore. Ha donato tutto se stesso alle folle che lo seguivano e lo ascoltavano. Ha guarito i malati per cui era venuto al mondo. E per essi, che fossero infermi nel corpo o nello spirito, si è speso e davanti a loro si è lasciato spezzare sul legno della croce dalla forza bruta del mondo, come lui stesso aveva spezzato e diviso il pane poche ore prima con i suoi amici.
Gesù non ha creduto in un mondo più giusto, bensì lo ha testimoniato. Ce lo ha messo davanti agli occhi nella sua persona. E di quel mondo fa parte la sua Chiesa.
È con questa Verità che dobbiamo fare i conti, credenti e non credenti, nell’approssimarsi della Pasqua di quest’anno. Una Pasqua così diversa dalle altre.