L’uomo, l’animale e il virus

Un film del 2011 (Contagion di Soderbergh) e un libro del 2012 (Spillover di Quammen) hanno anticipato, con la precisione della profezia (ma fondandosi entrambi su evidenze scientifiche note da decenni) le possibili conseguenze planetarie di un “salto di specie” (uno spillover appunto) di virus. In ogni caso, protagonista “negativo”, responsabile della catastrofe pare essere sempre un animale, che ha covato questo “ospite” (fole deliranti quelle del prodotto di laboratorio), probabilmente un pipistrello, che l’avrebbe passato ad un altro intermediario, si presume oggi il pangolino, venduto nei mercati dei freschi.

Siamo di fronte ad una delle grandi questioni dell’intera storia umana: il rapporto tra uomo e mondo animale che richiederebbe strumenti di ogni tipo per essere compreso sino in fondo, dalla filosofia alla psicologia, dall’antropologia all’economia. E dell’ecologia, ovviamente (oltre alla letteratura e alle narrazioni autobiografiche).

Partiamo da un’analisi economica. Ora che il fenomeno, per quanto ancora vigorosamente in atto, inizia ad essere circoscritto e a perdere la terribile aura dell’evento fatale o casuale si avviano, finalmente, anche le prime analisi serie delle cause.

Laura Spinney sul «Guardian» ricostruisce la trasformazione dell’economia cinese che, industrializzato anche il settore di produzione della carne, ha spinto molti piccoli allevatori rimasti senza lavoro a riconvertirsi all’allevamento di specie “selvatiche”. La conseguenza? «La presenza massiccia di persone in ecosistemi prima indisturbati ha innalzato negli ultimi decenni il numero delle zoonosi – le infezioni umane di origine animale – com’è stato documentato per l’ebola e l’hiv». Ma in realtà gli stessi grandi allevamenti sono causa di grandi malattie, come mostrato da Rob Wallace, esperto di biologia evolutiva, in Big farms make big flu (2016), purtroppo non tradotto in Italia, il quale parla esplicitamente di «strategic alliance with influenza» delle grandi multinazionali del cibo, aggiungendo: «Possiamo prendercela con il virus e le usanze alimentari, ma il nesso di causalità si spinge fino ai rapporti tra individui ed ecologia».

Secondo alcuni storici, l’influenza potrebbe essere giunta a noi circa quattromila anni fa, quando i cinesi cominciarono ad allevare le anatre. In ogni caso, animali domesticati in epoca arcaica sono stati ospiti intermedi importanti (il maiale, il cavallo) per la trasmissione del virus. Anche chi non condivide questa ipotesi, però, concorda nel ritenere che «siamo stati noi a modificare le relazioni ospite-agente patogeno tramite lo sfruttamento dei terreni e delle altre specie animali».

Rallentare, dunque, i fenomeni di zoonosi dovrebbe spingere, sull’onda della catastrofe in atto, a rivedere modi di produzione e consumo dei cibi che mangiamo.

Lo storico Piero Bevilacqua è autore di studi importanti dedicati al paesaggio, al suolo, all’agricoltura (soprattutto del Sud Italia). Ne Il cibo e la terra (Donzelli, 2018) leggiamo: «La grande crisi che ha sconvolto gli allevamenti in Europa all’inizio del Duemila, con quella che è ricordata come l’epidemia della mucca pazza, non è stata un episodio isolato e occasionale, ma il risultato dell’evoluzione storica di un modo di produzione storicamente determinato, che comincia da molto lontano. Quella crisi è ormai alle spalle, così come alcuni eccessi produttivistici che l’avevano occasionalmente favorita, ma le cause strutturali da cui era emersa non sono state rimosse: sono ancora vive e tenaci, se non addirittura più forti». Lo storico, dunque, ci invita, in qualche modo, a pensare quanto sta accadendo nella longue durée. E nei giorni scorsi Bevilacqua è tornato sull’argomento, ricordando come gli allevamenti intensivi siano fomite di una vera esplosione di malattie nel mondo animale.

Mettendo in guardia da rischi futuri, lo storico invita i cittadini europei a due cose: mutare il proprio stile alimentare e lottare «contro la politica agricola dell’Ue, che finanzia l’agricoltura inquinante e lascia le briciole ai contadini e agli agricoltori biologici».

Arriviamo, dunque, all’aspetto in cui l’ecologia si intreccia all’etica.

Uno stile alimentare fondato sul consumo di carni e di prodotti animali è compatibile con la sopravvivenza del pianeta? Questo stile alimentare è (ancora) eticamente accettabile?

Jeremy Rifkin, economista e sociologico, autore già nel 1992, di Ecocidio, ha spiegato nel corso degli anni come «un numero crescente di esseri umani sta incidendo sempre di più sulla catena alimentare della Terra, con diete a base di carne, a spese dell’integrità del pianeta», invitando ad una conversione vegetariana (o, meglio, vegana), e, rispondendo alla trita obiezione sull’uomo «animale carnivoro», che si tratta invece di un onnivoro e che le proteine attualmente provenienti da alimenti di origine animale possono essere sostituite senza problemi.

L’umanità sembra matura anche per un salto più decisivo nel riconoscimento che, evolutasi nella sua capacità empatica, è capace di riconoscere il diritto alla vita anche a viventi non umani.

Un giovane filosofo, Leonardo Caffo, ha collocato la scelta vegana in un contesto molto più ampio, e cioè «un ripensamento più ampio del nostro ruolo di esseri umani su questo pianeta fragile che abbiamo la fortuna di abitare».

Hans Jonas ci ha insegnato che l’etica in un mondo così “antropizzato” non pertiene più solo i comportamenti individuali. Un’etica “eco/lgica” all’altezza del tempo, dunque, potrebbe trasformare quella in atto in una “catastrofe pedagogica” spingendoci a rivedere in senso evolutivo anche i nostri rapporti con il mondo animale.

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Il disegno, come i precedenti che accompagnano i contributi di Nicola Sguera, è di Ferdinando Silvestri: laureato in fisica, ha capito da un pezzo che la sua strada è quella delle matite. Quando non disegna, divide la sua vita tra famiglia, karate e lettura.