Battiato e le “minchiate” della Murgia

È realistico pensare, con amarezza, che la parabola creativa di Franco Battiato si sia chiusa per cause di forza maggiore. S’è creata una fitta coltre talvolta rotta da indiscrezioni, smentite seccamente dal “cordone sanitario” familiare strettosi intorno all’artista catanese.

Impresa ardua tentare un bilancio complessivo della produzione multiforme di un uomo che è stato non solo musicista (popolare e colto) ma anche pittore, regista, produttore, editore, politico, segnando in maniera indelebile la cultura e l’immaginario italiani a partire dai primi anni Ottanta.

Ci concentreremo, dunque, su un solo aspetto di tale poliedrica opera, prendendo spunto anche dalla riedizione del suo primo e probabilmente miglior live di sempre, Giubbe rosse (1989).

Nelle scorse settimane, la scrittrice Michela Murgia ha sostenuto, suscitando un vespaio di polemiche, che i testi di Battiato accumulano citazioni su citazioni ma nella sostanza sono delle «minchiate assolute e [di] nessun significato».

Al di là della mancanza di stile che le è stata imputata, è possibile discutere criticamente tale affermazione prendendola sul serio?

Il primo rilievo che vien da fare alla scrittrice sarda è che, probabilmente, conosce solo una parte della vastissima produzione di Battiato, in particolare la sua opera più celebre, La voce del padrone (1981), riconosciuto unanimemente come capolavoro “postmoderno”, fondato su un uso spinto di citazioni. E però solo ad una lettura superficiale esse appaiono prive di significato. Se si analizza, ad esempio, Centro di gravità permanente, si capirà che le evocazioni letterarie (i «gesuiti euclidei» che ricordano l’evangelizzazione di Matteo Ricci in Cina, i «capitani coraggiosi» di Kipling) vogliono dilatare lo spazio della nostra esperienza (dalla Cina alla Macedonia, dalla Bretagna all’America), il senso di dispersione centrifuga, per esaltare il richiamo alla ricerca di un «centro» interiore, secondo le indicazioni del mistico Georges Ivanovič Gurdjieff, sospendendo gli automatismi psichici.

Gino Castaldo, che a Battiato dedica un denso capitolo del suo Romanzo della canzone italiana (Einaudi, 2018), retrodata all’Era del cinghiale bianco (1979) e Patriots (1980) questa vera e propria rivoluzione (un «montaggio fino a quel momento sconosciuto alla canzone italiana nella costruzione dei testi») parlando di «un’irruzione postmoderna in cui si mescolano sacro e profano, ironia e tragedia, citazioni colte e popolari».

L’analisi dei testi potrebbe moltiplicarsi dimostrando ogni volta come il citazionismo non sia mai fine a stesso ma sorretto da una solida impalcatura di pensiero, nutrita di letture raffinatissime (impossibile non citare Guenon e la grande mistica di varie tradizioni religiose, soprattutto quella araba) e, soprattutto, da una sofferta ricerca spirituale di cui la musica è parte integrante. Per farsene un’idea si può sfogliare il catalogo della casa editrice fondata dall’artista nel 1985.

Se volessimo tentare un ardito parallelismo potremmo dire che la produzione di Battiato, che va dalla fine degli anni Settanta a Mondi lontanissimi (1985), sia il corrispettivo di quello che La terra desolata è nell’opera di T.S. Eliot: denunzia della corruzione del mondo contemporaneo, vana ricerca di un solido ancoraggio per anime smarrite, apertura dubbiosa alla trascendenza vista come unica possibile salvezza. E il percorso successivo che annovera un capolavoro assoluto come Fisiognomica (1988) e giunge fino a Caffè de la Paix (1993) articola, con una contaminazione sempre più spinta del pop con sonorità classiche ed esotiche, il raggiungimento di quel «centro di gravità permanente» («il punto fermo del mondo che svolta» avrebbe detto Eliot), che consente di guardare con maggior distacco il deliro del presente. Eliot scrive nei Four quartets, punto d’approdo della sua ricerca spirituale:

Le parole si muovono, la musica si muove
soltanto nel tempo; ma ciò che soltanto vive
può soltanto morire. Le parole, dopo il dialogo, giungono
al silenzio. Soltanto con la forma, con un modello,
le parole o la musica possono giungere
alla quiete, come un vaso cinese
si muove perennemente nella sua quiete.

Battiato dichiara esplicitamente di aver raggiunto tale quiete, «l’oceano di silenzio», capace di conferire chiarore ad uno sguardo altrimenti obnubilato da «pensieri neri». È davvero, dunque, «un’altra dimensione» l’unica possibile risposta all’affannosa ricerca di «un’altra vita» rivendicata in Orizzonti perduti.

Siamo di fronte ad un piccolo miracolo: un faticoso percorso interiore esce dai ristretti confini di un’aristocrazia esoterica (quella che lo ha influenzato, come raccontato in Perdutoamor del 2003), diventa esperienza condivisa, “cultura popolare”, di cui è esempio l’uso che Moretti fa di E ti vengo a cercare in Palombella rossa.

Battiato ha continuato a comporre, girare film, dipingere. Nel 1994 incontra Manlio Sgalambro e si apre un capitolo nuovo della sua storia creativa. E però il filosofo siciliano, fino ad allora noto solo ad una ristretta nicchia di appassionati per alcuni libri editi da Adelphi, è quanto di più lontano si possa immaginare dall’autore di Nomadi. Proveniente dalla scuola del pessimismo di Schopenhauer, del materialismo di Giuseppe Rensi, del cupo nichilismo di Emile Cioran, l’autore de La morte del sole doveva inevitabilmente stravolgere un percorso fino ad allora apparso coerente. Non che non ne siano sorti “fleurs”,ma si ha come l’impressione che nell’opera non venga più trasfusa una ricerca esistenziale propria (delegata preferibilmente al cinema o a libri come Il silenzio e l’ascolto, Castelvecchi, 2014). Insomma, a chi ha amato il “secondo” Battiato, quello seguito alle sperimentazioni più ardite sui suoni degli anni Settanta, la collaborazione con il filosofo originario di Lentini è apparsa come una deviazione. Non per caso Annino La Posta (Franco Battiato. Soprattutto il silenzio, Giunti, 2010) parla di «ritorno sulla terra». L’alternativa, probabilmente, avrebbe dovuto essere il silenzio e il ritiro dalle scene pubbliche. È questo Battiato che probabilmente non sfugge talvolta al rischio della citazione fine a se stessa, dell’erudizione ostentata, del gusto (che sicuramente apparteneva a Sgalambro) di épater le bourgeois.

Battiato, dunque, e speriamo di aver smontato le superficiali affermazioni della Murgia, è stato un riferimento non solo in virtù della sua originalità musicale, ma anche, per un lungo periodo della sua carriera, per i contenuti profondi, provenienti da una ricerca rigorosa che, costeggiando coraggiosamente le secche del nichilismo, giunge, infine, alla sua meta.

Il disegno, come i precedenti che accompagnano i contributi di Nicola Sguera, è di Ferdinando Silvestri: laureato in fisica, ha capito da un pezzo che la sua strada è quella delle matite. Quando non disegna, divide la sua vita tra famiglia, karate e lettura.