Il comunista contemporaneo è un liberale diplomato
Su El País, in data 5 maggio, è apparso, in merito al tema del “dopovirus”, un estratto dell’ultima pubblicazione del filosofo sloveno Slavoj Žižek, intitolato Benvenuti nel deserto virale. Come sappiamo, in tanti, in questi mesi, si sono avventurati nell’arte del pronostico. Ragionando di distopie, utopie, nonsensotopie, cretinotopie e imbarazzotopie. Intravedendo nel trauma pandemico un’occasione introspettiva per l’intera umanità, un’occasione in cui sfoggiare tutte le scorte rimanenti di resilienza (la parolina magica per antonomasia). Oppure, intravedendo l’irreversibilità dell’apocalisse, perché, in fin dei conti, solo tardi abbiamo avuto il coraggio di ammettere ciò che propriamente sapevamo, ossia che la normalità prepandemica non aveva nulla di normale.
Žižek, tra i più autorevoli all’interno dell’immensa produzione letteraria dedicata al flagello in corso, appartiene di sicuro agli avvistatori di resilienza. Infatti, nell’illustrare la sua versione del futuro prossimo, parte dal seguente assunto: qualunque fenomeno catastrofico che può determinare l’annientamento dell’uomo ribalta ogni prospettiva, trasformando i conflitti preesistenti in qualcosa di insignificante. Tale ribaltamento, seguendo la linea di pensiero del filosofo sloveno, si accompagna quasi inevitabilmente alla nascita spontanea di una nuova solidarietà globale, premessa indispensabile per un ripensamento delle politica e della geopolitica.
“Il virus è democratico, riguarda tutti” si ripete Žižek, “e non abbiamo a che fare solo con delle minacce virali, ma al nostro orizzonte si stanno addensando anche altre catastrofi, se non stanno già addirittura accadendo: siccità, ondate di calore, tempeste di proporzioni enormi, ecc. In tutti questi casi, la risposta giusta non dovrebbe essere un panico generalizzato, bensì il duro e urgente lavoro di istituire una qualche sorta di efficiente coordinamento globale”.
Ma è davvero così? Il virus e le altre calamità citate riguardano tutti? A nostro parere, le cose sono un po’ più complesse. Nel senso che il virus e le altre calamità riguardano senz’altro tutti, ma non tutti allo stesso modo. Questi fenomeni sconvolgenti non hanno nulla di democratico: le immagini di Parasite, meraviglioso film diretto da Bong Joon-ho, espongono plasticamente tale concetto, facendoci notare come un furibondo nubifragio possa essere, allo stesso tempo, tanto uno spettacolo sublime da gustare, al sicuro, tra le mura di una megavilla sfinestrata, quanto una terribile devastazione di quel poco di cui si può disporre quando il proprio perimetro esistenziale appare ai limiti dell’abitabile, periferico, in ostaggio della scadentissima edilizia degli sconfitti. Similmente, non hanno granché di democratico né la mattanza dei poveri perpetrata negli Usa da Covid-19 (non essendoci un’assistenza sanitaria universale, diciamo che la malattia ha responsabilità relative), né la dialettica salute-lavoro nel contesto-fabbrica, che espone il lavoratore dipendente al contagio e agli annessi rischi più di quanto non accada per l’imprenditore, né la traduzione del “deserto virale” in dessert virale operata da quei fondi speculativi che individuano nella crisi finanziaria generalizzata un’occasione per incrementare i profitti.
Žižek, ovviamente, è consapevole di ciò, sebbene, nella fattispecie, parta da presupposti semplicistici. Tuttavia, non considerando che la nostra epoca è forse la meno intelligente dell’umanità, poiché inumana per definizione a causa degli enormi scompensi socio-ambientali che comporta, il pensatore sloveno si lascia catturare da fantasie su possibili scenari futuri riparatori in cui ad avere la meglio sarà una nuova versione, magari globale, del comunismo, che nulla avrà da spartire con gli orrori del comunismo storico o con gli errori del comunismo teorico: “Non il vecchio tipo di comunismo, ma semplicemente una qualche sorta di organizzazione globale che sia in grado di controllare e regolare l’economia, oltre a limitare quando necessario la sovranità degli Stati-nazione”.
A tal proposito, egli conclude affermando che “se chiamiamo liberali coloro che hanno a cuore la nostra libertà e comunisti quelli che sono consapevoli che possiamo salvare tale libertà solo per mezzo di un cambiamento radicale – dal momento che il capitalismo globale si avvicina ad una crisi – dobbiamo dire che, oggi, quelli che si considerano ancora comunisti sono dei liberali diplomati: liberali che hanno studiato seriamente quali sono i motivi per cui i nostri valori liberali si trovano sotto minaccia, rendendosi conto che solo un cambiamento radicale potrà salvarli”.
In brutale sintesi: il nuovo comunismo è un liberalismo che vuole farcela, che ha compreso la fallacia insita nell’equazione progressismo=sviluppismo. Staremo a vedere.