Cavie e caviale: infettare soggetti sani per testare il vaccino contro il coronavirus…

La corsa al vaccino in grado di chiudere il capitolo “pandemia” va avanti da mesi. A ritmi serratissimi. Con tempistiche compresse dall’urgenza sanitaria, dalle pressioni politiche e dalla logica del mercato.

Tanti i laboratori coinvolti. Tanti i finanziatori. Tanti i prodotti testati. Alcuni dei quali giunti alla terza e ultima fase di sperimentazione. Quella che prevede l’interessamento di un nutrito numero di partecipanti e di un gruppo di controllo composto da individui che non ricevono il trattamento sperimentale, ma solo un placebo: ciò che in termini scientifico-metodologici viene definito “doppio cieco”, una procedura volta a impedire che i risultati di un esperimento siano invalidati a causa di eventuali interferenze psichiche da parte di chi assume il farmaco oggetto del trial.

Tra i concorrenti in gara non tutti, però, sono soddisfatti della velocità raggiunta. C’è chi auspicherebbe un ulteriore accorciamento della distanza dal traguardo. Come, ad esempio, i ricercatori del Jenner Institute di Oxford. Sottoscrittori di una lettera aperta indirizzata al National Institute of Health (l’agenzia governativa statunitense che si occupa di ricerca biomedica) in cui si fa riferimento alla possibilità di infettare con il SarsCov2 un certo numero di volontari, già coinvolti nella sperimentazione vaccinale, allo scopo di velocizzare l’affluire dei dati e di valutare, quindi, con maggiore velocità, l’efficienza del vaccino, nonché la sua sicurezza, riducendo, così, i tempi della commercializzazione.

Cavie e cavilli

Tale proposta, eticamente controversa, ha alimentato un’aspra contesa all’interno della comunità scientifica. Tra chi sostiene, facendo leva sull’adozione rodata di questa prassi sperimentale, che gli eventuali infettati sarebbero solo individui sani adeguatamente informati, nonché appartenenti a fasce d’età considerate a bassissimo rischio sul piano clinico, e chi sostiene, invece, appellandosi alla sindrome dell’apprendista stregone, che i rischi connessi all’infezione indotta non siano calcolabili, non essendoci ancora una cura per il Covid ed essendo le statistiche sullo sviluppo di quadri clinici severi in costante evoluzione.

Gli smaliziati premono sul tasto dell’efficienza: più dati in minor tempo significa maggiori probabilità di salvare migliaia di vite. Matematica pura, purissima: rischio minimo, vantaggio massimo. I contestatori, invece, al netto di un tasso di letalità assestantesi sotto l’1% tra gli individui in età compresa tra i 20 e i 34 anni, insistono sulla scarse informazioni che abbiamo in merito alle conseguenze della patogenicità del SarsCov2 sul lungo termine: è noto che alcuni virus (ad esempio l’HPV o l’HIV) contribuiscono allo sviluppo, in cottura lenta, di tumori o di altre patologie.

Per i contestatori dell’infezione indotta il problema non risiede nell’utilizzo di esseri umani in qualità di cavie, passaggio peraltro indispensabile affinché una qualsivoglia sperimentazione di un qualsiasi farmaco possa concludersi, bensì nella volontà di inoculare qualcosa di dichiaratamente nocivo (e dagli oscuri strascichi) nel corpo di alcuni individui per abbreviare i tempi di una risposta che, presto o tardi, sarà comunque a disposizione della comunità scientifica.

Cavie e caviale, la filantropia coatta dei disperati

Il succo è che non tutte le cavie sono uguali. Per le cavie umane qualche paletto etico in più andrebbe contemplato, dicono gli oppositori dell’infezione indotta. Ci sono dei limiti che non andrebbero oltrepassati. Almeno quando non si tratta di cavie umane prelevate dalle riserve naturali di cavie, ossia le bidonville del terzo mondo. Luoghi in cui le case farmaceutiche, grazie anche alla connivenza delle leggi e dei politici locali, ingrassano i propri bilanci, riducendo i costi di sperimentazione. Con decine di migliaia di test clinici. Con decine di decessi di persone indigenti, disperate, in cerca dei rimborsi-indennizzi derivanti dall’essere cavie, smaniose di filantropia coatta, spesso inidonee, per ragioni di analfabetismo, alla sottoscrizione consapevole di un modulo sul consenso informato.

A Mumbai ne sanno qualcosa. Di recente, per sperimentare l’adozione dell’idrossiclorochina in funzione anti-Covid i giganti della farmaceutica hanno rovistato tra le baracche in cerca di volontari. L’ultima di una discreta, molto discreta, serie di sperimentazioni sopra le righe. In rarissimi casi documentate dal Washington Post o da altre testate giornalistiche avvezze al grande pubblico.

Curioso che di questo colonialismo farmaceutico si parli poco. Anche una buona parte della comunità scientifica sembra disinteressarsene. Forse perché non contaminata dagli ormoni del terzomondismo. Forse perché quando i riflettori su una sperimentazione sono spenti i comitati di bioetica non hanno la forza di accendere la luce. O forse perché, in fondo, anche per le teste migliori del pianeta è ormai, tutto sommato, accettabile che i giovani indiani (et similia) che vivono al di sotto della soglia di povertà rischino, per qualche spiccio, di compromettere la propria salute per salvare le chiappe, le divine chiappe, dei ricchi occidentali o dei ricchi tout court.

Cavie e caviale, il mercato funziona così.