Tre film da manicomio

Vi è piaciuto Ratched? Vi ha spaventato abbastanza? Sicuramente tra sangue zampillante e sadismo un tanto al chilo c’è da che stare svegli. I manicomi, del resto, sono delle ambientazioni impareggiabili per alcuni tra i peggiori incubi e risultano terrificanti anche quando ci si serve di codici comunicativi più raffinati e meno diretti di quelli della serie Netflix. In questo articolo troverete alcuni tra i più interessanti film (a modestissimo parere dello scrivente) che hanno avuto il manicomio come ambientazione o come sfondo incombente. Si tratta di lungometraggi old fashioned ma, al di là dell’influenza dovuta alla finzione cinematografica, è bene ricordare che si tratta di film girati quando i manicomi erano ancora realtà del tutto esistenti e in funzione; con tutto quello che ne derivava.

La fossa dei serpenti (1948)

Il titolo, tradotto fedelmente dall’inglese The Snake Pit, fa riferimento alla fossa dei serpenti dove – ci dicono – nell’antichità veniva buttato il malato di mente per recuperare la sanità grazie allo shock. In effetti appare chiaro da subito che i metodi utilizzati, se non arrivavano a tanto, certo non dovevano essere molto meglio, né in termini di efficacia né in termini di rispetto dell’individuo.

Anatole Litvak restituisce un ritratto impietoso, realista, crudele della mostruosità dei manicomi: se riusciamo a mantenere lo sguardo indulgente verso alcuni manierismi hollywoodiani come il lieto fine, ne apprezziamo il sottile terrore che lo attraversa silenziosamente fino ad esplodere a tratti, accompagnato dalle soffocanti atmosfere create dalle musiche di Alfred Newman (colui il quale detiene il record di nove Oscar vinti per le colonne sonore), come accade nella tumultuosa sequenza dell’elettroshock. Quando la realtà supera la più terrificante delle fantasie.

Osserviamo la protagonista muoversi tra stanze spoglie e detenute malconce dagli sguardi vacui, private della propria umanità e confinate al rango di corpi vuoti in uno spazio da riempire il più possibile: senza sconti, Litvak ci mostra come l’individuo possa tornare facilmente alla bestialità; o apre squarci sull’orrendo grottesco, tra infermiere frettolose, insensibili, talvolta crudeli, e donne buttate nella fossa ad aspettare una morte, mai come in quel caso, liberatoria.

Improvvisamente l’estate scorsa (1959)

Non ci si faccia ingannare dal cast di super-divi, tra Elizabeth Taylor, Katherine Hepburn e Montgomery Clift; né dal sottotesto della storia d’amore o dalla censura ai riferimenti sull’omosessualità. La trasposizione cinematografica della pièce di Tennessee Williams riesce perfettamente nel suo scopo di raccontare l’orrore dei trattamenti a cui si poteva essere sottoposti in caso di “conclamata malattia mentale”; o, peggio ancora, nel caso in cui qualcuno con ampie disponibilità ritenesse, per i più svariati motivi, di doversi liberare di un parente meno fortunato.

La narrazione in Suddenly Last Summer oscilla tra quello che può sembrare un noir ben orchestrato e un gioco di metafore e finzioni disseminate e costruite scena dopo scena, che portano ad un finale spiazzante, che lascia con la sensazione di vertigine e nausea che si può provare proprio nella calura pomeridiana, dopo pranzo, d’estate. Tra piante carnivore almeno quanto i parenti e apparenze da salvare a qualunque costo, viviamo con il fiato sospeso l’attesa della più terribile delle pratiche ritenute, un tempo, curative: la lobotomia. Un modo per tagliare scomodi ricordi e evitare che questi portino alla lacerazione del velo e a una reale, definitiva esplosione di follia.

Drammatica e grottesca la sequenza in cui una terrorizzata Elizabeth Taylor, per scappare dalla madre e dal fratello che hanno già venduto la sua salute alla facoltosa zia, finisce in una stanza in cui ci sono decine di malati di mente che tentano ad assalirla, una volta superato lo stupore iniziale di vedere una donna entrare nella loro stanza. Disumanizzati, privati di anima, ci restituiscono, seppur per pochi secondi, un orrore reale, il doppio di quello che potrebbe accadere se il piano di lobotomia andasse a buon fine: d’altronde Mankiewicz, che qualche anno prima aveva diretto Eva contro Eva, di doppi aveva una certa esperienza.

Il corridoio della paura (1963)

Qui lasciamoci alle spalle, decisamente, divi, censure e allusioni: Samuel Fuller, con il suo sguardo al contempo visionario e impietoso, ci porta nel manicomio nel quale il giornalista Johnny Barrett ha deciso volontariamente di rinchiudersi per indagare su un omicidio e, soprattutto, vincere il premio Pulitzer.

Qual è il confine tra le ossessioni di una persona “sana” e quelle di un malato di mente? Praticamente qualcosa di impercettibile e ce ne rendiamo conto avanzando nello Shock Corridor, tra le sue pareti soffocanti dalle quali non abbiamo via d’uscita, discendendo all’inferno con un protagonista sempre più alienato e frammentato al suo interno; ma forse lo intuiamo già quando comprendiamo con quale stratagemma il protagonista è riuscito ad infiltrarsi all’interno della struttura.

Film stilisticamente ipnotico, con una fotografia netta, secca, crudelmente diretta che esplora la malattia ma, al tempo stesso, condanna senza appello la società americana: non semplicemente quella che consente l’esistenza dei manicomi, bensì quella in cui corpi alienati, bruti all’interno di un sistema aggressivo e violento, si aggirano come spenti fantasmi. Certo, non chiusi tra quattro pareti ma, non per questo, meno allucinati.