Appunti beethoveniani

L’anno beethoveniano volge al termine. Ma non è passato giorno, forse ora, che il pensiero della sua musica non occupasse il mio cervello. Con la stessa insistenza di un compositore contemporaneo. Il che vuol dire che la mia lettura e il mio ascolto di Beethoven sono stati, fin da bambino, la lettura e l’ascolto di un compositore “nuovo”, che aveva qualcosa di nuovo da dirmi.  Lo stesso mi era accaduto con Chopin, prima ancora, quando lo sentivo suonare da mia nonna. E poi Schumann: i Phantasiestücke suonati da Rubinstein, che dall’altro lato del disco suona la Patetica di Beethoven. E questo continuò ad accadermi fin dai primi, infantili, studi di pianoforte.

Ricordo l’emozione quando riuscii, abbastanza presto, a suonare Per Elisa. Chopin mi commuoveva, Beethoven mi avvinceva, Schumann mi sorprendeva: non avevo ancora capito quanto le tre emozioni fossero in realtà la suggestione di uno stesso pensiero musicale. Non che Chopin, Beethoven, Schumann si assomiglino: ad assomigliarsi è il loro modo di pensare la musica come atto significativo, anzi come atto culturale.

Oggi so che a stregarmi, di Beethoven, è stato, soprattutto, proprio il suo modo di pensare la musica. Inimitabile e, nello stesso tempo, fecondo di suggestioni per il futuro: ha di fatti condizionato i due secoli che l’hanno seguito, compresi i compositori da lui distanti o addirittura opposti. Come per Wagner, si può seguirne la scia o opporvisi, ma in ogni caso è impossibile prescinderne. Ecco perché, ogni volta che leggo o ascolto una pagina beethoveniana, mi sembra di leggere il discorso di un mio contemporaneo, anzi di un mio coetaneo. Per esempio, per l’uso che fa della tradizione precedente.

Di recente, in un concerto trasmesso da Radio3, è stata eseguita, non ricordo da chi (ma l’interpretazione non mi è piaciuta molto), la sonata op.31 n.3. Non sapevo, com’è stato detto, che fosse tra le preferite di Arthur Rubinstein (di nuovo lui, interprete anomalo di Beethoven, ma proprio per questo assai stimolante). Credo, oggi, a quasi 80 anni, d’indovinare il perché. In questa sonata Beethoven rovescia un intero universo. Nonostante – o forse proprio perché – la sonata appaia di una straordinaria, accattivante, leggerezza, una leggerezza ch’è sostanziale dal punto di vista formale, ma ambigua e inquietante nel suo significato profondo.

Vorrei, però, fermarmi su un solo tempo di questa meravigliosa sonata: il minuetto. E’ una danza che evoca da sé un secolo: il Settecento. Il Settecento, in Beethoven, non è quasi mai uno sguardo nostalgico al passato, ma la riflessione su un’esperienza culturale non ancora conclusasi, e suggerisce spesso pertanto aperture formali e significati quasi metafisici, quasi come la contemplazione di un paradiso perduto, o meglio di cui si sono volute perdere le istanze, morali e politiche, perché ritenute irrecuperabili, di cui perciò non si nutre rimpianto o nostalgia, ma, se mai, desiderio, e che si osserva come modello ideale di equilibrio non soltanto formale.

La Rivoluzione non fu per Beethoven un evento presto superato dalla Restaurazione, anzi la Restaurazione ne fece cogliere ancora di più, oltre che l’attualità, la necessità. L’imperativo morale dell’uguaglianza, della fratellanza, della libertà percorre l’intera opera del compositore. Averlo intuito, capito, assorbito, tale principio, lo rende irreversibile. La sua perdita, o la mancanza, è una lacerazione. Che il cupo, terribile attacco del secondo atto di Fidelio adoperi quasi alla lettera (con un’armonia più intricata e complessa) l’attacco di una cantata funebre per la morte di Giuseppe II, scritta nel 1790, chiarisce assai bene il rapporto di Beethoven con la composizione del tardo Settecento. Giuseppe II, il sovrano che tentò di realizzare la separazione dei poteri, la separazione, soprattutto, tra religione e Stato. Ma, rispettando la leggerezza della sonata, il Settecento è rappresentato da un minuetto.

Tra le pagine più cantabili mai scritte da Beethoven, le variazioni Diabelli si concludono, anch’esse, con un minuetto spudoratamente haydniano, in cui l’ironia sembra prevalere sul rimpianto. E Haydn, del resto, imperversa in questa sonata (ma anche Mozart, soprattutto nel primo tempo). Haydniano è lo scherzo, in due quarti. Ma il minuetto è, come si è detto, tra le pagine più cantabili, più liriche mai scritte da Beethoven. E’ davvero il ritratto di un mondo perduto, come qualcuno ha scritto (mi pare Rolland)?

La sonata fu composta nello stesso anno del cosiddetto Testamento di Heiligenstadt. E apparirebbe svincolata dalla tragedia che colpisce, inesorabilmente e irreversibilmente, Beethoven. Ma ne siamo sicuri? Ecco perché scrivevo che la leggerezza è apparente, reale nella scrittura, ambigua, inquietante nel suo significato. Come si suona tutto questo? Come si fa arrivare all’ascoltatore? A mio avviso, insistendo sulla leggerezza generale della sonata, sull’ironia (beffarda la chiama Rosen) dello scherzo, sul virtuosismo furente della tarantella finale, ma soprattutto sull’ambiguità espressiva del minuetto: una pagina fuori moda, e perciò attualissima – viene da pensare all’inattualità di Nietzsche, che si fa interpretazione di un’attualità insopportabile. Quel mondo perduto è, per Beethoven, il paradiso della Ragione, ma ancora di più dell’Imperativo Categorico che impone alla società tutta il rispetto di una stessa legge morale. E’ l’epoca, proprio per questo, per questa razionalità, per questa esigenza morale, della grazia e dell’amabilità: l’imperativo morale non è mai per Beethoven arcigno, insoffribile. Arcigna è la società che non lo rispetta.

Per comprendere appieno la dimensione della perdita bisogna allora far sentire quanto oggi rievocarlo faccia scricchiolare la scrittura, la renda “inautentica”, un’imitazione. I segnali non mancano. Sorprendenti indicazioni dinamiche, improvvisi mutamenti armonici. Che deformano i lineamenti settecenteschi. Asimmetrie sorprendenti, inusitate.

La butto là, e azzardo: e se Beethoven, un secolo prima di Stravinskij, avesse già impostato una poetica “neoclassica”? Come leggere l’Ottava Sinfonia (che infatti sorprese il pubblico e non fu subito compresa)?

Parve un ritorno indietro. E non lo è. E’ anzi un visionario balzo in avanti: addirittura nel corpo del XX secolo, e forse anche del XXI. Ci riflettano certi compositori. I quali pensano che a ristabilire un ordine basti saltare il nuovo (le avanguardie) e rifarsi a ciò che c’era prima. Beethoven quel prima non lo propone mai com’era, ma lo mette tra parentesi, lo scrive “come se”. Ecco perché resta, ancora, un nostro contemporaneo. E che contemporaneo! Uno che vede più lontano di noi.