Il servizio conta più del racconto delle materie prime

La temperie che ci tocca vivere, tra le altre afflizioni, prevede leziose narrazioni sull’origine delle materie prime di ogni pietanza ordinata al ristorante o servita sulle tavole di cene private.
Un tempo si chiamavano ingredienti e gli chef custodivano i segreti della loro ricerca.
Anche gourmet e gourmand erano reticenti a rivelare i propri fornitori.

Giorgio Duroi, mio bell’amico aostano e infaticabile animatore di cene per mangioni, mi dicono si sobbarcasse viaggi e oneri pur di non rivelare la masseria dove comprava una tal conserva di pomodori per gli amici. Per lustri, del resto, mi tenne nascosto il suo panificio di fiducia, sin quando un giorno non lo scoprì per caso.

Oggi anche dell’aglio (chi lo avrebbe mai classificato tra le “materie prime”?) si annuncia la provenienza. La pasta è aggettivata col luogo o col cognome del produttore, riportati con magniloquenza manco fossero voci della Britannica.
Nelle recensioni c’è spazio per il trattamento riservato dallo chef alle materie prime (ex ingredienti) mentre sempre meno o nulla si dice di quello riservato al cliente.
Ed è male per il lettore.

Il servizio è determinante per la riuscita del pasto, giacché il pasto a ristorante non è mero cibo. È comfort, gradevolezza, piacere, quiete.
Si torna nel ristorante in cui si è mangiato passabilmente, ma si è stati serviti con equilibrio tra sobrietà e famigliarità. Non si torna, invece, nel ristorante dalla cucina eccelsa, ma dal servizio fastidioso.

Due opposti illuminanti negli ultimi mesi.
Clinica gastronomica Arnaldo a Rubiera, stella Michelin, e Trattoria del Nuovo Macello a Milano, osteria Slow Food. Cucina ottima da entrambi, superlativa quasi. Ma il servizio? Quello decide chi vince.
Il nome e la stella della prima presagiscono distacco, misura, asetticità.
Il nome e la chiocciola della seconda alludono alla genuinità e informalità.
Sennonché a Rubiera gentiluomini e gentildonne in livrea. Ricami e pizzi, colletti lindi, grazia dei gesti e cordialità dei modi, ammiccamenti discreti, voci suadenti, delicatezza, coccole, disponibilità. La blasfemia dello stereotipo Michelin. Non si andrebbe mai via, si tornerà sempre sia possibile. Ah, l’aristocrazia ha sempre definito lo standard auspicabile per ciascuno.

Al Nuovo Macello va in scena la prosopopea. Un servizio imbarazzante, non in quanto scarsamente professionale, ma perché sussiegoso. Conforme alla moda erompente dalla decadenza culturale del tempo, in cui la gastronomia è posa e il cuoco un maitre a penser. La sala è governata con supponenza, ampollosità e snobismo, volgare giacché gratuito. La complice comunicazione che tende a instaurarsi con l’inserviente educato e cordiale qui non parte, è stroncata sul nascere. Il pasto così è mozzato, inconcluso, la serata inconcludente. Si abortisce il dolce per la fretta di sottrarsi al supplizio o per scappar via prima che scappi la pazienza.

Cari ristoratori, meno narrazioni, più attenzioni.