Gli anni del nostro scontento

Partire dalla fine per capire gli anni Ottanta. Dalla catastrofica sconfitta della Pantera, il momento atteso e finalmente giunto del confronto con la storia. Partire dalla fine per capire il libro di Adolfo Scotto Di Luzio che cerca di venire a capo del “groviglio” di quegli anni, senza indulgere nell’autobiografismo, scrivendo pagine dense e godibili nel contempo.

L’autore, docente all’Università di Bergamo, si è formato a Napoli con Aurelio Lepre, occupandosi poi di storia del fascismo e, in particolare, della costruzione del suo apparato culturale. Suo ambito prediletto di ricerca è la storia delle istituzioni culturali e della scuola (a cui ha dedicato Il liceo classico, 1999, La scuola degli italiani, 2007, Senza educazione, 2015).

Ascrivibile in senso lato alla “storia culturale”, è difficile identificare modelli del libro.

Resterà deluso chi si aspetta un repertorio o un’operazione nostalgica. E sicuramente molti coetanei dell’autore avvertiranno delle lacune.

Ci troviamo di fronte a un libro importante e a ragion veduta ambizioso, che vuole trascendere, per certi versi, il suo specifico oggetto d’indagine per cogliere il segreto legame intergenerazionale come motore della storia o quanto meno sua decisiva componente. E scommettere anche su periodizzazioni tutt’altro che scontate.

Se consideriamo il libro strutturato in nove parti , sei di esse sono di fatto dedicate non agli anni Ottanta ma al ventennio che li precede, o meglio a quel periodo, omogeneo pur nelle differenze, che va dal 1968 al 1979 (anno spartiacque per molti dei suoi accadimenti non solo italiani)

«Politica e illusioni di una generazione nata troppo tardi», recita il sottotitolo. «I giovani degli anni Ottanta non hanno fratelli maggiori e quelli che vent’anni prima si erano alzati in un clamoroso gesto di rivolta stanno ora, più o meno, dal lato del potere, nell’università, nella comunicazione, nella politica». Siamo, dunque, di fronte ad un appassionato ma meditato atto di accusa nei confronti delle generazioni precedenti, ultime eredi di una lunghissima stagione nata addirittura con il Romanticismo, responsabili, una volta tentata la “loro” rivoluzione, di aver creduto (e, soprattutto, imposto di credere, attraverso la sapiente occupazione delle posizioni che consentono la formazione dell’opinione pubblica) che nulla di nuovo fosse più possibile. Dopo il Sessantotto, dopo il Settantasette, insomma c’era solo un diluvio la cui arca, però, era la tana domestica. In particolare il “situazionismo” del ’77 «lascia in eredità agli anni che verranno la vanificazione del potere conoscitivo della parola». Dopo aver assolutizzato un vitalismo spesso fine a se stesso.

I giovani cresciuti negli anni Ottanta, dunque, che non volevano uccidere il padre, ma avere fratelli maggiori con i quali confrontarsi e da cui ereditare le categorie attraverso cui leggere il mondo, furono lasciati soli. Anzi, furono caricati del fardello di essere giunti troppo tardi e di non poter mai veramente diventare adulti. Di qui la povertà dei linguaggi di quella generazione, il ripiegamento sulla propria interiorità, la dipendenza dalle famiglie, le derive nichilistiche con la percezione di un presente desolante di fronte alla gloria e allo splendore di un passato “mitico” (in realtà, reso tale dalla ricostruzione dei “reduci”).

Insomma, “il riflusso”: «La nuova generazione fatica a elaborare i termini fondamentali della propria conoscenza di sé e del mondo». Davvero la loro eredità «non è preceduta da alcun testamento» (Char). Ogni orizzonte di emancipazione «del lavoro e dal lavoro» è finito miseramente: il campo di battaglia sembra scomparso. Lo spazio politico è diventato una “trascendenza” incomprensibile e, dunque, immodificabile. Per questo, a fatica, in un mondo che mutava rapidamente, si dotarono di strumenti rudimentali, spesso ingenui di lettura del presente, mentre Reagan e Thatcher umiliavano il movimento operaio, la Cina iniziava un rivoluzionario processo di trasformazione socio-economica, le istituzioni politiche italiane perdevano credibilità preparando lo schianto degli anni Novanta.

Pienamente “americanizzati” nei consumi culturali e globalizzati (nei viaggi e nella musica che diventava contaminazione planetaria con Peter Gabriel e Paul Simon ed eventi come il Live Aid), questi ragazzi cercarono nella “società civile” la loro “tradizione”: nelle vittime della mafia e della camorra, ad esempio.

Oramai fuori dalla tradizione rivoluzionaria del marxismo nelle sue molteplici varianti, essi confusamente comprendevano, prima timidamente, più chiaramente alla fine, con la Pantera (animale totemico votato ineluttabilmente alla gabbia…), che il capitalismo, lasciato ai suoi spiriti liberi e selvaggi, avrebbe fagocitato tutti i luoghi della produzione di cultura e di senso, dando pieno dispiegamento a quella modernizzazione avviata dal Sessantotto. E lo fanno appellandosi a ragioni etiche prima che politiche, attraverso pratiche pacifiste. Ma vengono guardati con sufficienza quando non ignorati, inquadrati esclusivamente attraverso categorie sociologiche in un mondo in cui gli adulti (quelli che “avevano fatto la rivoluzione” quando erano giovani) hanno riaffermato il potere dell’adulto (e della famiglia e di una scuola “repressiva” e “regressiva”) sul “giovane”.

Paradosso interessante: ai movimenti “metropolitani” del ventennio precedente, gli anni Ottanta oppongono la centralità della provincia nel farsi stesso dello «shock globale» (“il” cantante è, inevitabilmente, Vasco Rossi da Zocca).

Scotto Di Luzio, pur ribadendo l’ingenuità di certe elaborazioni, ripete che essi intuirono, sul finire del decennio, nell’occupazione delle Università, diverse cose: che devono esistere dei luoghi istituzionali di “trasmissione” delle esperienze, che nello smantellamento della cultura umanistica era in gioco l’identità stessa della storia e della cultura italiane.

Intuiscono insomma, senza elaborarlo adeguatamente, il conflitto tra formazione (Bildung) ed economia. Una «generazione senza impresa» prova a contrastare, con strumenti già logori, la logica totalizzante dell’impresa. La sconfitta apre gli anni Novanta, l’impresa che, nell’esplosione delle istituzioni repubblicane, si fa Stato, dopo aver colonizzato l’immaginario e ad aver imposto «l’egemonia sottoculturale».

Libro ricchissimo di suggestioni in cui centrale appare la cultura francese da Rimbaud a Nizan, da Aron a Sartre, come se la Francia fosse madre di ogni rivoluzione, coincidendo la sua storia culturale con la storia stessa della rivoluzione. Un libro capace di legare sempre una feconda intuizione generale a una vicenda, un’icona, un testo, un personaggio particolare ma nel contempo “esemplare”, Nel groviglio degli anni Ottanta si legge anche come un romanzo, i cui eroi “nascosti” sono tutti gli intellettuali rimasti fedeli al compito arduo di ordinare il caos della vita e della storia: da Tocqueville a Mann.

Trente ans après, e dunque venendo al presente, o meglio al futuro, che cosa potrebbe ereditare da se stessa questa generazione di “figli unici” più che di “orfani”? La consapevolezza dell’importanza degli spazi pubblici, prima di tutto della scuola, per la quale tornare a battersi con rinnovato vigore, e del linguaggio, dei linguaggi, sanando quella frattura di cui ha parlato George Steiner tra Logos e Mondo di cui l’ultima generazione “romantica, quella congedatasi dalla storia nel ’77, è stata fiammata finale che ha lasciato cenere. Per «fronteggiare il proprio stento», dunque, appare terapeutico (o salvifico?) riaffermare il primato della “prassi” sulla “poiesi” (nei termini illustrati dalla Arendt). Questa potrebbe essere l’impresa da articolare nelle istituzioni da offrire a chi si affaccia oggi sulla grande storia ritessendo un legame intergenerazionale: per-donando(si). Un’impresa “postuma” che val la pena tentare.

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Il disegno, come i precedenti che accompagnano i contributi di Nicola Sguera, è di Ferdinando Silvestri: laureato in fisica, ha capito da un pezzo che la sua strada è quella delle matite. Quando non disegna, divide la sua vita tra famiglia, karate e lettura.