L’industria farmaceutica sa anche venderci il nulla

Quando si pensa all’industria farmaceutica è inevitabile che la si associ agli ingenti investimenti che essa mette in atto nel campo della ricerca, al ritorno economico che ne consegue e a possibili macchinazioni.

Big Pharma è il paladino della salute e poeticamente ci viene proposto come uno scudo contro i dardi delle malattie. 

Spesso i chief executive officers ci propongono comunicati che sottolineano il numero di vite umane salvate con l’introduzione di questo farmaco o di quel test. 

Tali affermazioni, di solito, emergono a seguito di episodi di corruzione perpetrati dai vertici delle case farmaceutiche che vogliono favorire illecitamente una loro molecola o un loro test; lo scopo delle dichiarazioni, che ovviamente non entrano mai nel merito dello scandalo, è di stimolare il senso di gratitudine di noi cittadini per l’impegno che le aziende profondono nel preservare la salute pubblica.

Leggendo le dichiarazioni di Big Pharma verrebbe da pensare che ottenere profitti in modo onesto sia per loro, benefattori dell’umanità, una missione nobile, ma purtroppo non è così. E’ cosa nota che medici compiacenti abbiano prescritto questo o quel farmaco per aumentarne le vendite con vere e proprie mazzette, viaggi o altre regalie, che l’AIFA, Agenzia italiana del Farmaco, sia stata coinvolta in scandali a dir poco imbarazzanti, che la produzione vera e propria dei farmaci possa generare profitti extra con l’ausilio di semplici “accorgimenti” (spesso scoperti e puniti).

Per quanto riguarda quest’ultimo punto, è bene cominciare con i nostri cugini nordici, gli svedesi. 

Nel 1964, anno in cui i controlli sulla qualità dei prodotti farmaceutici erano meno stringenti e in cui, “giocando d’azzardo”, un unguento per curare infezioni oculari poteva non essere testato microbiologicamente, accadde che una pomata antibiotica risultò contaminata da Pseudomonas aeruginosa, un batterio gram-negativo, provocando la perdita della vista in alcuni pazienti che avevano sviluppato l’infezione. 

Si sa che sbagliando si impara e così anche per gli unguenti oculari fu successivamente prevista, come indicato dalla British Pharmacopoeia, il requisito per la sterilità. Certo è che il costo irrisorio di un test di sterilità non avrebbe creato un grosso scompiglio nel pingue bilancio di un’industria farmaceutica, tanto più se si parla della civilssima e pulitissima Svezia.

Oggi la normativa che descrive il modo di produrre farmaci, il controllo della qualità e la costellazione di disposizioni amministrative è davvero complessa e la bibbia che enuclea gli standard da osservare è appunto la Farmacopea

In realtà esistono diverse bibbie a seconda del paese; anche noi italiani ne abbiamo una e ovviamente c’è la volontà di armonizzare i vari codici, almeno a livello europeo. 

La corposità dei tomi normativi, ricchi di monografie tecnico-scientifiche, incute un certo timore e provoca non pochi mal di testa e grattacapi a chi lavora nel mondo farmaceutico. Far nascere un medicinale è davvero un’impresa, ma tanto più arduo è produrlo e distribuirlo secondo stringenti criteri di qualità. 

Ogni singola attività che accompagna la produzione del farmaco, dall’ingresso delle materie prime fino al confezionamento, deve essere debitamente registrata e documentata con una montagna di carte ed è un pò come produrre tanti certificati di nascita per quanti sono i passi nella catena di produzione. 

In genere si suole dire che ciò che non è scritto non è successo. Per cui, si provi a immaginare la mole di documenti che è necessario produrre per provare la correttezza dell’operato. 

Si suole dire “Mater semper certa est”, ma nella produzione farmaceutica ciò lo si deve assicurare anche per il padre e si può immaginare la difficoltà e laboriosità nella certificazione.

Appare quindi impossibile sbagliare in un contesto che è così rigidamente  strutturato, dove esiste anche e soprattutto la figura della Persona Qualificata (QP) che supervisiona la qualità dell’intero processo e verga con tante firme che ogni lotto è idoneo, approvato e che può infine essere commercializzato.

Dal 1964 al 2020 sembra, tuttavia, che non molto sia cambiato…

E’ di poche settimane fa, ad esempio, la notizia che una azienda farmaceutica con sede a New York ha tranquillamente falsificato “le carte” per vendere un prodotto oftalmico senza preoccuparsi dei requisiti di qualità. Cosa è successo? Gli operatori, nonostante avessero appurato una crescita di colonie batteriche in alcune colture rappresentative del processo produttivo, hanno successivamente registrato sui documenti una crescita zero, certificando il falso. Un’omissione dolosa, nonostante la dettagliata normativa. 

Il punto da sottolineare non è il costo del semplice test di sterilità, che è irrisorio, ma le evidenti conseguenze economiche dovute all’impossibilità di commercializzare un prodotto non sterile, ragion per cui si è scelto di omettere sulle carte la rigogliosa crescita delle colonie batteriche del prodotto oftalmico, chiudendo completamente gli occhi.

Ma in Italia si è più avanti, si ha più creatività. Invece di omettere di documentare, si omette di aggiungere il principio attivo nel medicinale, come nel caso della Geymonat che ha ideato nel 2013 una vera e propria truffa con la compiacenza di alcuni dirigenti dell’Istituto Superiore di Sanità. 

Cosa c’è di meglio per creare profitto quando si riscontrano difficoltà nel trovare il principio attivo? Ovvio: continuare a produrre senza aggiungerlo e vendere acqua fresca (qui magari potrebbero insorgere i cultori della medicina omeopatica e denunciare l’usurpazione nella vendita di miracoli in compressa, arrogandosi giustamente l’esclusività nel vendere il nulla). 

Ed è difficile pensare che questo Italian Job non sia stato orchestrato con cura. Perché quando un principio attivo non è presente, le obbligatorie analisi chimiche fatte in azienda non possono non evidenziarlo.

In effetti, tutti sapevano tutto, ma ciò che contava era produrre le carte che dimostrassero la bontà dell’operato. Come si diceva prima, ciò che non è scritto non è successo e in questo caso l’operosità aziendale ha dato il meglio nel produrre documenti falsi e rappresentare una realtà fittizia.  

Le varie truffe stimolano una riflessione e cioè che la codificazione di azioni doverose è a monte di ogni codificazione di norme, sia in campo farmaceutico che in campo sociale, e che quindi la deontologia in primis deve esprimersi in ogni azione, ovvero omissione. 

Non è necessario avere una complessa architettura legislativa in grado di indicarci come produrre un medicinale se poi si calpesta consapevolmente la verità e si mette a rischio la salute pubblica tanto cara all’industria farmaceutica.