Cicli di vita: lo scarto come risorsa

Centotrenta ettari equivalgono all’estensione di circa centocinquantasette campi di calcio. Questa estensione corrisponde al suolo occupato dal più grande sito di stoccaggio di rifiuti in Campania: Taverna del Re, situato tra Giugliano (Napoli) e Villa Literno (Caserta), dove tra il 2000 e il 2010, durante il famigerato periodo di emergenza, abbiamo accumulato circa 4 milioni di tonnellate di rifiuti urbani indifferenziati in una discarica/recinto in campagna.

Da qualche anno sono iniziate le operazioni di smaltimento, ma la gran parte di quella roba è ancora lì, maestosamente limitata come il monumento collettivo più esteso prodotto in Campania dall’inizio del nuovo millennio. Un gigantesco cretto di materiali imballati in un insediamento a scacchiera.

Questo monumento restituisce l’idea della quantità di rifiuti urbani prodotti dalla regione in un anno e mezzo, o da tutta Italia in meno di due mesi (ISPRA, 2019).

Ogni italiano produce circa 500 chili di rifiuti ogni anno, quantità che varia secondo l’area geografica, in proporzione agli indicatori dei consumi. La maggior parte di questa materia scartata dalle abitudini più diffuse nasconde un’enorme quantità di risorse, una miniera di ricchezza.

Secondo l’Unione Europea (Direttiva 2008/98/CE) un rifiuto è “qualsiasi oggetto o sostanza di cui una persona intenda disfarsi”. La legislazione in materia è tanto vasta quanto complessa e varia secondo la tipologia di materiale, trattamenti, destinazioni e molto altro. I rifiuti sono comunemente classificati secondo due tipologie: quelli urbani, prodotti dai cittadini e dalle piccole imprese, e quelli speciali, generati dalle aziende. A loro volta queste due categorie sono costituite dai materiali pericolosi e non pericolosi.

Ogni scarto ha una storia diversa.

I semplici rifiuti indifferenziati, ad esempio, che fine fanno quando scompaiono dalla nostra vista? Una prima tappa li attende negli impianti destinati al trattamento meccanico biologico (TMB), per poi prendere altre strade vicine o lontane. I capannoni dei TMB racchiudono apocalittiche immagini di catene montuose decadenti e maleodoranti, i rifiuti dei rifiuti, con i quali ancora finiscono molti residui organici e altri materiali riciclabili.

Costretti ai consumi dei prodotti di mercato, diffidenti nella filiera del riciclo, distratti dalle incombenze, ne siamo tutti gli autori in misura diversa. Per non partecipare a questo happening segreto bisogna prestare un’attenzione eroica.

Insieme alle direttive per la tutela dell’ambiente, l’Unione Europea sta adottando politiche per la prevenzione, la riduzione e il riciclo del waste. Alcuni paesi europei si prefiggono obiettivi concreti per accelerare la transizione verso l’economica circolare. Usare le frazioni separate di materia di scarto come input per nuovi processi produttivi, infatti, apre un universo di possibilità economiche di sperimentazione nell’ambito dell’ecologia industriale. Molte nuove imprese, però, sono spesso ostacolate dalle normative vigenti. Adoperare i materiali riciclati anziché quelli derivanti da estrazioni naturali comporta notoriamente molteplici vantaggi, permette di evitare l’estrazione di materie prime e il relativo inquinamento, il trasporto, il colonialismo estrattivo.

Tutte le attività urbane hanno impatti enormi sui territori, sulle città, sull’economia, sulle tasse regionali, sull’inquinamento. Per concepire la complessità delle reti di relazioni che costituiscono le filiere produttive e che modificano lo spazio urbano attorno a noi, c’è bisogno di distruggere l’immaginario appiattito sulla superficie visibile e iniziare a scomporre l’apparenza nelle sue componenti.

Solo le opere d’arte hanno il potere di produrre un senso di disvelamento del quotidiano e una momentanea sospensione dalla realtà. “Un paio di scarpe” da contadina, sottratte al valore d’uso e rappresentate da Van Gogh nella loro essenza, riportano a pensare al mondo rurale. Difficilmente un bicchiere ci porterà a pensare alle sabbie estratte e alla loro fusione.

Ma se ci soffermiamo anche solo brevemente a riflettere sulla storia di un qualsiasi bene che ci passa tra le mani e al futuro di quel bene al momento dell’abbandono, si aprono scenari ai quali è difficile restare indifferenti.

Le ricerche in corso sugli impatti ambientali, economici e sociali rispetto ai cicli di vita dei prodotti, delle filiere e delle attività su un territorio utilizzano sistemi di valutazione che analizzano le cause e gli effetti connessi all’esistenza di un sistema (ISO 14040:2006): genesi, modalità e fine vita, costi del processo, eccetera.

Nell’economia della natura gli scarti non esistono, la materia si reincarna.

I cumuli e gli accumuli, come figurati da Calvino ai bordi di Leonida, sono invece una realtà diffusa nel mondo contemporaneo. In particolare nei paesi più poveri, già oggetto del colonialismo estrattivo, si trovano anche le maggiori discariche a cielo aperto del mondo. Gli impianti di digestione e trasformazione dei materiali in circolo esistono, ma non sono mai abbastanza e nessuno li vuole dietro casa.

Gli stili di vita di matrice occidentale e la gestione irrazionale degli avanzi del capitalismo non funzionano più. La complessità crescente del mondo intorno a noi esige una sperimentazione a larga scala dei tanti sistemi adattivi di gestione della materia già diffusamente sperimentati nell’ambito della ricerca, con politiche ed azioni flessibili, aperte, innovative.

Non è solo una questione ambientale, l’ecologia è politica.

Cosa possiamo fare da subito noi piccoli microbi coscienti attanagliati in un sistema gigantesco?

Life cycle thinking.

Iniziare a dirigere la nostra immaginazione oltre il visibile e ridurre l’inutile, considerare la vita delle cose e la loro storia nel tempo e nello spazio.

Pensiamoci.