Il mondo è distratto ed Erdogan si prende l’Africa

“Mamma li Turchi” gridavano terrorizzati gli abitanti di Otranto nel 1480, quando l’invasione ottomana sovrastò le coste salentine. Oggi “Mamma li Turchi” ha assunto un nuovo significato, lasciato passare erroneamente in sordina dai media. Il protagonista assoluto è Recep Taypp Erdogan. “Sultano” tutto d’un pezzo che è riuscito a mettersi alle spalle golpisti e tiri mancini senza arretrare di un centimetro dalle sue discutibili mire.

La Turchia, sotto gli occhi disattenti dell’opinione pubblica, si sta infatti costruendo un ruolo politico ed economico in Africa. Il disegno è chiaro e ben articolato: Ankara vuole essere il punto di raccolta e di riferimento dell’Islam politico africano e, allo stesso tempo, mira a nuovi mercati a primo impatto scomodi e difficili, ma molto invitanti.

Acqua, petrolio, infrastrutture ed Islam: ecco le ricette della salsa ottomana.

La prima mossa di Erdogan, e questo è risaputo, ha riguardato la Libia, uno dei paesi più delicati e pericolosi, le cui sorti sono a cuore non solo all’Italia, ma a mezza Europa: a lungo Ankara ha gestito indirettamente le dinamiche interne di questo Stato-non Stato, retto da quattro influenti tribù dal post-Gheddafi.

Dopo il grande caos, Erdogan, assieme a Putin, provarono a piazzare delle bandierine sui territori libici proprio dove lo “Stato Islamico” si era rifugiato, cercando di ricompattarsi, in seguito alla batosta subita in Medio Oriente, e nello specifico in Iraq. Tanta roba per Erdogan che, proprio dalla Libia e dalla sua presenza islamica, prova oggi a garantirsi nuove opportunità economiche, in barba alle rassicurazioni che l’Europa sostiene a gran voce al cospetto dell’opinione pubblica.

Ecco che la Turchia si pone subito al centro del discorso offrendo sostegno incondizionato all’attuale presidente del Governo Nazionale libico guidato da Fayez al-Sarraj: appare chiaro che l’invio di truppe speciali turche in Nord Africa a sostegno di Tripoli non sia affatto casuale. Il vero scopo di Erdogan è di natura economica, quindi va bene qualche miliziano in Libia se c’è la possibilità di mettere le mani sui ricchi giacimenti di idrocarburi del Mediterraneo libico e creare un comodo corridoio sul mare così da permettere alla Turchia le estrazioni di gas e, soprattutto, di petrolio, diventato sempre più merce rara e costosa. Un’azione in contropiede che ha spiazzato tutti, Italia compresa: a fare la voce grossa è stato Israele, oltre alla Grecia, che detiene diritti sull’area entrata nell’orbita turca. Erdogan ha minimizzato, buggerandosi di Atene con un laconico: “Non capisco di cosa stanno parlando”.

Dicevamo dell’Italia: l’Eni ha stipulato con Roma numerose concessioni che ora rischiano di saltare in virtù del grande disegno del “sultano”.

Oltretutto, Erdogan non ne vuole sapere di fermarsi alla Libia: la sua “campagna d’Africa” è appena cominciata e, nelle ultime settimane, ha fatto registrare una brusca accelerata. In Algeria è stato da poco eletto Abdelmadjid Tebboune, che ha subito fatto intendere di avere un debole per la politica espansionista turca. A frenare lo sposalizio tra le parti, almeno per adesso, la Costituzione d’Algeria, che vieta qualsiasi tipo di intervento militare all’estero. Ma l’escamotage per aggirare l’ostacolo si troverà. Va solo studiato come indorare la pillola e convincere Europa e Usa della bontà del progetto.

Se l’intesa con l’Algeria non è del tutto completa, nessun problema con il Senegal dove il premier turco è praticamente di casa e ben visto dal governo attuale. Gli investitori turchi hanno già operato in diverse grandi infrastrutture senegalesi, una su tutte l’aeroporto internazionale “Blaise Diagne”. Una “simpatia reciproca” che spiana la strada a nuovi accordi economici tra i due Paesi esattamente come è accaduto poche settimane fa in Gambia dove Erdogan, accolto trionfalmente dal presidente Adama Barrow, ha affilato un solido patto politico-militare tra le parti offrendo competenze e preparazione all’esercito gambiano.

Infine l’approdo positivo in Somalia. L’ex colonia italiana è al centro dell’attenzione della politica internazionale ed è attesa da un 2020 complesso e delicato, esattamente come l’Etiopia, in bilico tra liberalizzazioni e prove di democrazia governativa.

Anche in Somalia Recep Taypp Erdogan sembra aver fatto facilmente breccia e l’obiettivo è sempre lo stesso: il petrolio. La Somalia, inoltre, è intenzionata ad avviare nuove operazioni di ricerca di idrocarburi al largo delle sue coste invitando a nozze il premier turco che sogna di bissare l’accordo economico fatto con la Libia.

A questo aggiungiamo che la Somalia è un paese quasi del tutto musulmano ed ecco che l’intreccio politico-religioso-economico si ripropone. Lo Stato dell’Africa Orientale, come la Libia ma per questioni diverse, è la chiave d’accesso di Erdogan: petrolio sì, ma soprattutto l’acqua, visto l’importantissimo sbocco sul mare nel golfo di Aden.

La tattica turca è chiara: in quell’area operano già da tempo e con ottimo profitto, Cina, Usa, Arabia Saudita e paesi europei. E’ ovvio che Erdogan non vuol mancare al gran ballo in un periodo storico ed economico cruciale: a differenza degli altri competitor, può giocarsi a suo piacimento l’asso nella manica, ossia la componente religiosa, considerando che la Somalia è prevalentemente musulmana, senza tralasciare che proprio a Mogadiscio è attiva la più grande ambasciata turca in Africa.

E, a proposito di ambasciate, ecco un altro segnale da non sottovalutare: nel 2010 le “bandiere turche” sui palazzi africani erano poco più di 15. Nel giro di dieci anni le ambasciate della Turchia sono salite a 41. Incredibile, come già accennato con gli investimenti infrastrutturali in Senegal e Gambia, la mole di danaro che Ankara ha investito in Africa (circa 30 miliardi di dollari); e siamo solo davanti ad un micro-obiettivo, viste le continue azioni di marketing di investitori turchi nei territori africani.

Un lavoro certosino, fatto di intelligence, scambi commerciali, investimenti e saldi da mercato rionale. La tattica di Ankara è solida e curata nei minimi dettagli: almeno fino a quando non sarà Trump a venire a rompere le uova nel paniere. Cosa assai improbabile non solo oggi, ma anche in un immediato futuro. La tela di Recep Taypp continuerà a ingrandirsi e a farsi sempre più fitta.

D’altro canto, però, l’espansionismo turco potrebbe trasformarsi in un pericoloso boomerang perché gli avversari di Tripoli e Ankara (e del Qatar che nutre affinità religiose molto forti con la Turchia)  sono ben organizzati: oltre alla Russia di Putin, ci sono da considerare l’Egitto, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi. Il rischio è palese, perché “qualche miliziano in Libia” dell’area siriana filo-turca già è stato immolato sul campo di battaglia. Una guerra in un territorio non turco potrebbe far saltare in aria tutti gli ambiziosi progetti di Ergodan, un po’ come accadde in Vietnam per gli Stati Uniti: restare invischiato in una guerra “non sua”, lontana dai confini nazionali, potrebbe comprometterlo.