Cuba deve resistere ai cubani

Cuba è in rivolta. A quasi trent’anni di distanza dalle ultime proteste degne di nota. Crisi economica, crisi energetica e crisi sanitaria hanno condotto il disagio sociale a esplorare nuovamente la forza politica delle piazze. Costringendo il regime ad alternare mazzate e accomodamenti, propaganda e trattative. Instillando nei programmi dei rivoltosi la possibilità delle dimissioni di Miguel Díaz-Canel, creatura partitica, ora al comando dell’utopia in rovina, narrativamente debole, lontana dall’epica rivoluzionaria della dinastia castriana.

Le piazze sono piene perché mancano generi alimentari e beni di prima necessità. Vuoi per responsabilità governative, vuoi per l’abominevole embargo ripristinato in era trumpiana dagli Stati Uniti. Con mercati neri e altre forme di economia non osservabili a prender piede e a minare l’autorevolezza dei pianificatori politici.

La gestione pandemica non è stata all’altezza. Tanti medici, tante strutture, ma poche, pochissime medicine per curare i malati.

Un asset dell’export come la canna da zucchero ha patito il peggior raccolto degli ultimi decenni e il turismo, che vale circa il 10% del PIL, ha conosciuto una battuta d’arresto senza precedenti.

I cubani lottano per la sussistenza, mandando in circolo istanze antidittatoriali. Sbeffeggiando slogan consumati e in qualche caso lasciandoci le penne.

Il regime ha bloccato internet, ha bloccato i social, ma non lo ha fatto in tempi utili. Le immagini hanno inondato rapidamente il pianeta, mettendo il silenziatore ai molti nostalgici per hobby, agli amanti, per dirla con Fulvio Abbate, del comunismo col culo degli altri.

Una penuria di commenti sospetta? A veder bene, neanche tanto. Perché nel parlare di Cuba la nostalgia suggerisce il registro celeste, gli appunti diaristici del Che e altre romanticherie in pantofole sulla guerra all’imperialismo. Il registro terrestre, in grado di far regredire nell’immaginario il mistero dell’idillio caraibico fatto di sanità e istruzione gratuite, marxismo in mimetica, realpolitik in bikini e Novecento fatato, sa di storiografia spiccia, di globalismo zelante.

Cuba va difesa a oltranza, anche dai cubani. Fare altrimenti è semplificare. Questo si legge nei complici silenzi di certa sinistra sbiadita. La prosecuzione del castrismo con gli stessi mezzi merita complessità d’analisi. Perché senza la giusta complessità diviene difficile difendere l’indifendibile: l’illiberalità strutturale, il controllo capillare della popolazione, misure d’arresto per gli oppositori politici e altri giochini repressivi tipici delle dittature del proletariato da amare a distanza di sicurezza.

Quando la complessità, declinata sulla pelle dei cubani, potrà avere il suo spazio nel dibattito, potrà esprimersi a freddo, una volta lontana dalle immagini più fastidiose delle folle disperate, i commenti à rebours potranno finalmente giungere copiosi e restituire un’adeguata collocazione storica al cocktail repressivo post-castriano: che mangino brioche!

Per il momento, tocca accontentarsi di qualche “Cuba resiste” sporadico. Di qualche rara presa di posizione esplicita, perlomeno coraggiosa, di certa intellettualità indomita, squadernata, ad esempio, prevedibilmente, dalle colonne del Manifesto e giunta, meno prevedibilmente, sul blog di Grillo, un organo di informazione piuttosto vicino, fino a prova contraria, al ministro degli esteri in carica.

“Cuba resiste”, ci fa sapere il pentacastrismo, per la sua inossidabile missione. Per insegnare alle classi medie occidentali in disfacimento l’importanza di casa, lavoro, istruzione e sanità per tutti. Beni inestimabili per chi non ha nulla e, a quanto pare, – implicito assai buio – non ottenibili a pieno, nel 2021, senza l’apologia del liberticidio.

“Cuba resiste”, deve resistere ai cubani, alla storia, alla decenza, alla caduta nel futuro, alla fame, deve resistere per la mancanza di visione delle sinistre occidentali, per coccolarne il retaggio, per preservare la propria capacità di resistenza passata, per preservare tra gli umani il concetto di Resistenza, per preservare la nostalgia masturbatoria del turista politico, poco incline all’idea di dover frequentare l’apertura di nuovi orizzonti.