In Australia Facebook si arrende a pagare Murdoch
In Australia da un anno si sta giocando una partita decisiva per il futuro dell’informazione e dell’editoria giornalistica.
La settimana scorsa gli editori, i grandi editori, hanno segnato una vittoria epocale destinata probabilmente a riverberarsi nel resto del pianeta.
Facebook ha ceduto. Ha siglato un accordo triennale con la News Corp del magnate australiano dell’informazione Rupert Murdoch, definendo il prezzo, tenuto riservato, per la diffusione sui propri social dei link alle informazioni pubblicate dai media del gruppo.
Google aveva già stipulato il proprio patto nei mesi scorsi.
L’Australia, proprio per la pressione di Murdoch, è stato il primo paese ad approvare una disciplina, il News media and digital platforms mandatory bargaging code, che impone ai due colossi del web di accordarsi con gli editori e pagarli per diffondere i contenuti da questi prodotti.
Il presupposto della norma è semplice. Google e Facebook vendono pubblicità usando e rendendo disponibili gratuitamente le notizie raccolte, organizzate, illustrate, commentate dagli editori. Non solo.
Qualsiasi inserzionista è orientato a dirottare sulle società leader del web il proprio budget pubblicitario perché gli viene offerta una possibilità che nessun editore può offrire: far giungere il messaggio ai clienti in modo mirato.
Google e Facebook, infatti, profilano gli utenti. Profilano anche attraverso i contenuti prodotti dagli editori che ciascun utente condivide o visualizza.
Gli editori, dunque, producono il proprio cappio e la ricchezza delle web company.
I numeri parlano chiaro. Google e Facebook raccolgono il 75% della spesa pubblicitaria mondiale, quella che una volta andava agli editori.
I colossi di Mountain View e Menlo Park operano rispettivamente come monopolisti nel campo delle ricerche web e dei social media. Dettano le regole.
Facebook è così potente da poter condizionare le scelte politiche e la legislazione. Dopo la prima approvazione della normativa australiana, il social ha rimosso dalla propria piattaforma tutti i link alle informazioni australiane, anche quelle istituzionali. Il Governo australiano a quel punto è stato costretto a scendere a patti, impegnandosi a valutare gli accordi raggiunti tra Facebook stessa e gli editori, prima di imporre l’applicazione della legge anche relativamente alla trasparenza sulla raccolta dati e sull’algoritmo.
Il predominio del web ha via via impoverito l’editoria giornalistica sottraendo lettori e decretando l’obsolescenza della carta stampata.
Nel 2009, ossia 18 anni dopo la nascita del web e sette anni dopo la nascita di Google news, aggregatore di notizie consultabili gratuitamente online, il New York Times scese per la prima volta sotto il milione di copie cartacee vendute.
Da allora, nonostante diversi esprimenti, nessun editore è stato capace di far fronte allo tsunami del web, dell’informazione gratuita per tutti, dell’emorragia di copie vendute e di introiti pubblicitari.
Insomma, c’è chi produce e incassa sempre meno (gli editori). E c’è chi distribuisce e incassa sempre più (i leader del web).
Una spirale perversa e complessa che ha determinato anche un deterioramento della qualità dei giornali, licenziamenti, abbattimento delle retribuzioni dei giornalisti. Più in generale il degrado del sostrato necessario alle democrazie liberali: la libertà e il pluralismo dell’informazione. Un contesto che favorisce la propagazione di fake news.
È significativo che negli stessi giorni in cui in Australia imperversava la guerra Facebook – Governo – Murdoch, negli USA un rapporto dell’intelligence rivelava le interferenze russe a base di fake news in occasione delle ultime elezioni Presidenziali.
Il caso australiano, salutato dal mondo dei media come un successo capace di invertire potenzialmente le tendenze in atto, pone ulteriori non irrilevanti problemi che per ora restano irrisolti.
Innanzitutto, non rientrano nel perimetro della legge australiana, una miriade di piccoli editori con fatturato inferiore a 100.000 euro (150.000 dollari australiani). E questo pone problemi di pluralismo e indipendenza.
C’è poi il tema della libertà di internet. L’inventore del “world wide web”, Tim Berners Lee, in un intervento ripreso dal Guardian, noto quotidiano antagonista di Murdoch nel Regno Unito e in Australia, ha rimarcato come «la regolamentazione australiana mini alla base il principio fondamentale della possibilità di collegarsi liberamente al web e sia incoerente con il modo in cui il web ha saputo operare negli ultimi tre decenni».
La grande guerra delle notizie online, aperta da due decenni, segna in Australia un vittoria importante per gli editori ma è ben lungi dall’avere un esito che sia inequivocabilmente collegato agli interessi di società libere, pluraliste, democratiche.
Il dibattito adesso si sposta in Europa, come ha annunciato alla Stampa Robert Thomson, ceo di News Corp.
La direttiva Copyright, approvata dalla Commissione Europea nel 2019, ha sin qui prodotto risultati insoddisfacenti. Briciole distribuite da big data a start-up innovative nel mondo dei media e a fondazioni. Vedremo se anche nel vecchio continente il terreno di scontro si sposterà da quello del diritto d’autore a quello della concorrenza e del libero mercato. Se la UE avrà la forza di imporre pagamenti compensativi a Google e Facebook, secondo una logica che in verità pare estranea alla cultura europea.