Il dirottamento di Minsk è la morte del diritto internazionale

Terrorismo di Stato. Dirottamento. Abuso di potere. Atto di guerra. Pirateria. È stato definito con vari appellativi quanto successo domenica scorsa al volo Atene-Vilnius costretto ad atterrare a Minsk con il conseguente arresto di Roman Protasevich, uomo scomodo per il regime di Lukashenko, in quanto fondatore del principale organo di informazione indipendente del Paese, Nexta.

Ciò che sconcerta è che tutto questo non è accaduto in luoghi remoti del Pianeta, nello spazio aereo di qualche democratura o in una zona di guerra, bensì in Europa, o meglio nel flebile costone orientale dell’Unione, che proprio da una democratura è stato messo sotto scacco. Al di là della vicenda personale di Protasevich, comune a tantissimi dissidenti nell’est Europa come in Russia, quello che allarma è che tutto questo è avvenuto a bordo di un comune volo low cost, di quelli a cui ci stiamo-felicemente-riabituando dopo la pandemia. L’episodio, sul quale, nell’immediato, la stampa europea aveva nicchiato, resta di una gravità inaudita e mette in risalto tre tristissimi dati di fatto: l’Europa non viene riconosciuta ancora come un bastione geopolitico degno di rispetto o in grado di incutere alcun tipo di deterrenza; la Cortina di Ferro non ha mai smesso d’esistere e può ancora flettersi, in barba al diritto internazionale, rendendosi permeabile ai metodi criminali veterosovietici; il diritto internazionale subisce una battuta d’arresto di portata storica, rendendo tutti i cittadini europei e non, in volo nello spazio aereo dell’Unione, suscettibili di dirottamenti, arresti e processi arbitrari. Nessuno può più dirsi al sicuro, soprattutto in Europa dopo i fatti di cui sopra.

È complesso inquadrare il caso in una categoria onnicomprensiva del diritto internazionale, poiché in questa vicenda si sovrappongono più questioni come la domestic jurisdiction, il dirottamento, la cattura di un presunto “criminale” all’estero e tanto altro ancora. Un breve recap della vicenda aiuta a capire quali possono essere gli appigli giuridici contro la Bielorussia: nel pomeriggio del 24 maggio, il volo Ryanair FR4978 è in rotta da Atene, in Grecia, a Vilnius, in Lituania. L’aereo è stato registrato in Polonia. Una volta che l’aereo entra nello spazio aereo bielorusso, al pilota del volo viene comunicata la presenza di un ordigno esplosivo a bordo e che è necessario un atterraggio di emergenza. A questo punto, un MiG-29 dell’aeronautica militare bielorussa appare dal nulla a scortare l’aereo, non verso Vilnius, ma verso Minsk, in Bielorussia. All’atterraggio, Protasevich e Sofia Sapega, una studentessa di giurisprudenza russa e sua compagna, vengono arrestati. Poi il silenzio internazionale, poi ancora l’indignazione e poi ancora, le prime timide misure contro il dittatore bielorusso.

Alla luce di tutto ciò, è possibile derubricare il fatto come un’aggressione alla sovranità straniera? In parte sì, se consideriamo che si definisce territorio di uno Stato non solo la terra, comprensiva dei laghi, fiumi e golfi che vi si trovano (acque interne), ma anche il mare territoriale e lo spazio aereo sovrastante il territorio terrestre e quello marittimo (spazio atmosferico). Ora, per analizzare quanto successo alla luce fredda del diritto occorre fare riferimento alla rete dei trattati che disciplinano la materia, in particolare la Convenzione di Chicago del 1944 sull’aviazione civile internazionale e la Convenzione di Montreal del 1971 per la soppressione degli atti illeciti contro la sicurezza dell’aviazione civile: da notare che la Bielorussia è parte di entrambe. L’articolo 1 della Convenzione di Montreal considera un crimine internazionale il caso in cui una persona illegalmente e intenzionalmente “comunica informazioni che sa essere false, mettendo così in pericolo la sicurezza di un aereo in volo”. In secondo luogo, per l’articolo 10, uno Stato deve “in conformità con il diritto internazionale e nazionale, sforzarsi di adottare tutte le misure praticabili allo scopo di prevenire i reati menzionati nell’articolo 1.” Ne consegue che, nel progettare un atterraggio di emergenza in ragione di una falsa minaccia (per la quale Minsk scomoda perfino Hamas), la Bielorussia ha commesso una violazione grave della Convenzione di Montreal.

Nell’intricata vicenda entra in gioco anche la proprietà e la nazione di registrazione del velivolo. In questo caso l’aeromobile batte bandiera polacca, pertanto l’aggressione “nazionale”, sarebbe stata compiuta ai danni della Polonia: quest’ultima, come gli altri 186 Stati membri della Convenzione di Montreal, potrebbe intentare una causa contro la Bielorussia dinanzi alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia. In un mondo perfetto, almeno. Proprio l’allora Repubblica Socialista Sovietica Bielorussa, nel 1971, pose la riserva sul paragrafo 1, articolo 14, a proposito delle disposizioni sulla risoluzione delle controversie, che prevede la giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia. Quindi, se uno Stato intentasse una causa contro la Bielorussia, molto probabilmente la Corte dovrebbe respingere il deferimento per mancanza di competenza. L’ultima spiaggia è il Consiglio dell’Organizzazione per l’aviazione civile internazionale (ICAO), l’agenzia specializzata delle Nazioni Unite incaricata di coordinare i viaggi aerei civili, sulla cui competenza la Bielorussia non ha mai posto la riserva. In termini pratici, ciò significa che Protasevich e Sapega devono essere rilasciati dalla custodia bielorussa e autorizzati a continuare il loro viaggio verso Vilnius, come avrebbero fatto se la Bielorussia non avesse agito in questo modo. Il fatto che Protasevich sia cittadino bielorusso non cambia le cose.

Assumendo, per assurdo, la colpevolezza e la pericolosità di Protasevich, il diritto internazionale non tollererebbe comunque l’operazione. Ogni Stato ha, infatti, l’obbligo di non esercitare in territorio altrui e senza consenso il proprio potere di governo, ossia di non svolgervi con il proprio organo azioni di natura coercitiva. Sotto quest’ottica fu ad esempio illecita, anche se moralmente giustificabile, la cattura da parte di agenti del governo israeliano del criminale nazista Eichmann, avvenuta sul territorio argentino nel 1960 (per poi essere processato e giustiziato in Israele). In quel caso l’illiceità della cattura fu affermata anche dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, adito dall’Argentina: con la risoluzione n.138 del 23.06.1960, il Consiglio, pur sottolineando la necessità di perseguire i nazisti macchiatisi di crimini contro gli ebrei e avvertendo di non volere con la risoluzione medesima di giustificare i crimini di cui Eichmann era accusato, chiese al governo israeliano di assicurare al governo argentino una riparazione adeguata conformemente alla Carta delle Nazioni unite e alle norme del diritto consuetudinario. Nella storia non sono stati infrequenti i casi di azioni illecite di polizia consistenti nell’inseguimento di criminali oltre frontiera: in tutti questi casi il diritto internazionale consuetudinario prevede l’istituto della restitutio in integrum, ossia del ristabilimento della situazione di fatto e di diritto prima dell’illecito. La restituzione di persone oltre che di cose, navi, documenti, ecc. rientra fra questi casi.

Tuttavia, il diritto internazionale pur essendo un deterrente per molti, sconta ancora il fatto di essere alla mercè di meccanismi volontari e cooperativi multilaterali: funziona solo se gli Stati che vi prendono parte si riconoscono nelle regole comuni e nelle comuni sanzioni. Tutto il resto è homo homini lupus.