Il mare di Fukushima

La TEPCO, società che gestisce la centrale atomica di Fukushima danneggiata dallo tsunami del 2011, ha dichiarato che i serbatoi in cui avviene lo stoccaggio dell’acqua impiegata per raffreddare i reattori (a rischio fusione) esauriranno la propria capacità di immagazzinamento entro il 2022. Un problema enorme, sollevato anche dal ministro dell’ambiente uscente Yoshiaki Harada. Il quale ha aggiunto, a titolo personale, che il piano di smaltimento dell’acqua contaminata più realistico, nonché più economico, prevede lo sversamento in mare. Sversamento che avverrebbe, precisa, solo dopo una meticolosa opera di diluizione del liquido radioattivo.

La notizia ha fatto immediatamente il giro del mondo. Allarmando l’industria ittica giapponese (un vero e proprio asset dell’economia nazionale), le nazioni confinanti e gli ambientalisti di ogni dove. Ed è facile afferrarne il motivo: l’impatto sull’ecosistema marino potrebbe essere devastante anche ad ampio raggio e sul lungo termine. Sul lunghissimo termine.

Non ci sono dati certi in merito. La chimica dei vari radionuclidi contenuti nelle cisterne di stoccaggio è diversa e diversi sono i tempi del decadimento radioattivo: il trizio si sposta con le correnti (il cui sistema di circolazione è molto efficiente), percorrendo anche distanze significative, mentre gli altri isotopi, con ogni probabilità, finirebbero per concentrarsi localmente, accumulandosi nelle microalghe e nelle ossa dei pesci, danneggiando i fondali.

La compromissione del mercato ittico della zona di Fukushima, già compromesso dalla catastrofe del 2011, rischia di essere irreversibile. La percezione di pericolo dei consumatori di solito non si placa in virtù di concetti quali “procedura regolatoria” e “disastro controllato”. Cose come l’idea di trovarsi nel piatto il corrispettivo marino dei funghi radiotrofici provenienti dai lussureggianti giardini di Chernobyl tendono a far presa. Anche perché il consumatore medio, soprattutto se occidentale, al giorno d’oggi, è assai assorbito dal suo essere consumatore. È sospettoso. Conosce ogni dettaglio di filiere, trattati e geoeconomia. Conosce persino l’accordo di libero scambio tra Giappone e Unione Europea (Japan-Ue agreement) che consente l’importazione di alcune varietà di molluschi e di pesci originari delle coste nipponiche. E fidarsi, post-sversamento radioattivo, di quelle coste, viene da sé, potrebbe costargli fatica: l’empirismo ha i suoi limiti; questa volta non ci sarà l’Abenomics a salvare i pescatori di Fukushima.

Intanto, il team di tecnici che si occupa della questione sta vagliando anche altre opzioni che impediscano di applicare la logica aberrante, flinstoniana, drammatica, del mare-discarica avvezzo, come per magia, all’autodepurazione. Tra queste, ad esempio, le più quotate sono la vaporizzazione dell’acqua contaminata, con dispersione nell’atmosfera, o l’iniezione delle stessa nel terreno. Opzioni poco percorribili a causa dei probabili rischi per la salute.

Costruire, in elementare alternativa, ulteriori serbatoi non pare, invece, un’ipotesi contemplabile. Non tanto per ragioni di logistica o di edificabilità dei terreni adiacenti alla centrale (che sono off limits sotto questo aspetto), quanto per la scarsa risolutività insita in tale soluzione. Il problema, infatti, non verrebbe risolto. Verrebbe solo rimandato di qualche anno. E considerando che le cisterne contenenti l’acqua contaminata non sono state progettate per resistere decenni, ci sarebbero ulteriori criticità da valutare. Dunque, lo scenario più credibile rimane, purtroppo, la dispersione negli abissi, con annesso tifo per le correnti giuste. Il mare di Fukushima sarà il manifesto perfetto, l’ennesimo, dell’antropizzazione acefala.