Maledetti Americani

Maledetti americani. Destra, sinistra e cattolici: storia del pregiudizio antiamericano, così Massimo Teodori, grande interprete italiano degli Stati Uniti, intitolava un suo libro nel lontano 2003. Pensavamo di aver visto tutto in questi mesi e invece la storia ha confermato, ancora una volta, come “entra nelle stanze e le brucia”.

Sembrano scene distopiche da Paese di Borat quelle in cui i supporter di Trump, abbigliati come mufloni, si sono seduti sugli scranni più alti della più grande democrazia del mondo in quel di Capitol Hill. E questo appare la fine di tutto. Un principio di Apocalisse. Ed ancora una volta tutti a gridare al “Benedetti/Maledetti Americani!”. Come se questo fulgido esempio, più unico che raro nella storia, avesse il perenne dovere morale (o moraleggiante?) di essere sempre perfetto come i Puritani di secoli fa.

No signori, l’America non lo è, gli Americani non lo sono. E considerarli come tali provoca una serie di storture di immagine e di giudizio che ingenerano altrettante malate considerazioni sociologiche e politiche. L’America è modello perché è stata un sogno, ancora prima che potente, armata e imperialista. E chiunque si sia preso la briga di studiarne la storia pre-1917 lo sa. Ai Padri Fondatori non fregava davvero nulla di essere faro del Mondo o di essere imperialisti: volevano difendere quei valori che, paradossalmente, proprio la madrepatria gli aveva insegnato, come la difesa della proprietà, del commercio, del proprio spazio di autonomia, della propria libertà. Quello spirito, che Thomas Paine espresse così bene nel suo Common Sense, diventò poi diritto alla felicità, diventò Frontiera. Questo fa innamorare dell’America: l’idea che sia una Terra dove si possa sempre ricominciare. Ed è la stessa ragione per cui non siamo disposti a vedere questa immagine di Vergine Immacolata percossa e attonita.

Credere ancora all’America del fagotto, di Kerouac e della Route 66, tuttavia, è da ingenui. L’America ha ferite profonde come tutte le Nazioni. Ferite razziali, economiche, politiche e di sistema che in una nazione di più di 300 milioni di abitanti attraversata da 6 fusi orari esplodono con puntualità di un orologio atomico. Parliamo di un Paese che, nelle sue aree più degradate, che si tratti della Louisiana o delle grandi periferie urbane, ha tassi elevatissimi di indigenza (sono più di 40 milioni gli americani che vivono al di sotto della soglia di povertà) e di abbandono scolastico. La scuola americana, quella del mito degli armadietti nei corridoi, quel sistema scolastico che spesso inseguiamo, produce ogni anno studenti meno preparati, con un livello di stress altissimo legato all’accumulo del merito per giungere all’Università, legata ai potentati di genitori ricchi e dispotici. Sono le stesse scuole dove ogni anno migliaia di studentesse poco più che bambine abbandonano gli studi perché incinte o dove spesso e volentieri un adolescente fa strage di compagni a colpi di arma da fuoco, più facili da acquisire di una birra. Ma è anche il Paese del dramma dell’assistenza sanitaria, del debito universitario, degli homeless, del suprematismo bianco.

Ciò significa che questi maledetti/benedetti Americani non se la passano meglio di noi. E succede, può succedere, che quando sacche di malcontento, di insoddisfazione, di rabbia inesplosa incontrano il bifolco di turno, arrivi l’imprimatur del voto. Se ci sorprende l’elezione di Trump, allora non abbiamo capito come va il Mondo e come funziona l’essere umano. Trump andrà via, con tutti i disonori del caso, ma quelle sacche, quei rioters pronti ad invadere il Congresso resteranno e su quelli bisogna lavorare. Epurato da allucinati e criminali abituali, l’elettorato medio di Trump, soprattutto quello non violento, dobbiamo conoscerlo se vogliamo evitare che faccia danni.

Vi è poi un elemento che non dobbiamo dimenticare. Quanto successo stanotte è uno di quei momento di serendipità che creano un prima e un dopo: ma più che segno di un declino sono segno della ciclicità della storia che alterna fratture e ricomposizioni in una danza eterna. Se per i bifolchi trumpisti è stato possibile entrare quasi indisturbati al Congresso, quello stesso Congresso, stanotte, ha salvato con urgenza il futuro americano sigillando una situazione rovente. Ne sono il simbolo le giovani assistenti parlamentari che portano via con urgenza le casse contenenti la documentazione della seduta di ieri. Lo dimostra la pacatezza di Biden che invita l’avversario a deflagrare. E lo dimostra anche il fatto che, se si trattasse davvero di una dittatura, Trump avrebbe trovato il suo fetido modo per restare al potere e per mettere il Paese a ferro e fuoco. La ferita è gigante ma il Paese, al di là delle sue storture, ha preservato la sua tenuta democratica, cosa che non potrebbe accadere altrove. Non sprechiamo perciò i paragoni con altre realtà perennemente nel caos.

Ci sono molte ferite che Biden dovrà ricucire e, probabilmente, un po’ per carisma che per età, sarà un’impresa. Sarà un’impresa epocale restaurare il sentimento dell’“e pluribus unum” lì dove un buzzurro ha soffiato con così tanto livore da mettere America vs America.

Nel pieno della guerra civile, il 19 novembre 1863, il presidente Abraham Lincoln tenne a Gettysburg il discorso più toccante della storia americana nell’omonimo cimitero: lì, sottoterra, venivano adagiati i corpi straziati dei giovani americani precedentemente gettati nelle fosse comuni. Per molti la guerra civile finì in quel momento, quando quel presidente si pose ancora una volta come presidente di tutti gli Americani. Il 2020 ha riportato in auge le fosse comuni: i morti sono bianchi e neri, del nord e del sud, ricchi e poveri, democratici e repubblicani.

Ci vorrebbe un altro Lincoln. A benedirli. Tutti.